Genova – In un’epoca in cui la globalizzazione si è affermata come l’esportazione della modernità occidentale a tutto il globo, il territorio assume il valore di nuova categoria interpretativa del sociale.
È sul territorio, infatti, che avviene l’incontro tra il particolare e l’intero, tra i luoghi e gli spostamenti. Sul territorio confliggono gli interessi, le povertà, i bisogni, le differenze. Sul territorio si radicano le parole di una politica che ci vuole con una sola identità e si dimentica di riconoscere nella pluralità il vero elemento strutturale del consorzio umano.
Certo, vivere nella pluralità non è facile. Il pluralismo presuppone un’etica reciproca che riconosca nell’altro un bene sociale e una prospettiva comune.
“Quando arrivano qui diventano la nostra povertà – racconta Vittoria Gallo Basteris, presidente del centro preconsultoriale CIF Mascherona di Genova – e abbiamo il compito di trattarli con rispetto, di ascoltare i loro bisogni e di raccontarli”.
Che cos’è e cosa fa il CIF Mascherona
Il CIF, Centro Italiano Femminile, è un’associazione di donne di ispirazione cristiana che svolge servizio volontario e opera su tutto il territorio nazionale per promuovere la dignità della donna, per sostenere la sua partecipazione alla vita delle istituzioni e per superare ogni discriminazione anche sensibilizzando l’opinione pubblica sui problemi della condizione femminile. Il Centro preconsultoriale Mascherona è un’emanazione del CIF e nasce nel 1967 per aiutare la donna e quindi la famiglia disagiata, in una delle zone più povere di Genova, il centro storico. Agli inizi l’utenza era costituita soprattutto da donne anziane, dell’Italia meridionale, con povertà di ritorno e solitudini vicine all’emarginazione. In un secondo momento, a rivolgersi al centro, erano donne di origine sudamericana, poi albanesi di seconda ondata, arrivate cioè dopo il 1992. Oggi il 95% arriva dal Marocco.
“Il tramite per costruire un dialogo è l’aiuto di sussidiarietà che diamo con il sostegno del Banco Alimentare – continua la presidente – ed è un modo per aprire un colloquio e stabilire un legame tra noi e le donne che si presentano. Da qui nascono poi altre forme di sostegno attraverso l’intervento della consulente familiare, della psicologa, della councelor”.
Tante sono le ingiustizie che segnano il vivere umano e spesso non basta avere la pancia piena. Le donne che accedono al CIF lo fanno perché sono spinte da bisogni primari, immediati. Vivono pressate da problemi contingenti come il lavoro, il permesso di soggiorno e non hanno la possibilità neppure materiale di occuparsi dei bisogni secondari.
“Un punto dolente – precisa Paola Morganti che al centro si occupa dell’accoglienza – è l’alloggio. Alcune abitano in condizioni che non sono decorose e spesso più famiglie condividono lo stesso appartamento”. Queste donne che appartengono a un mondo in fuga hanno grandi difficoltà a occuparsi di loro stesse e vivono in un atteggiamento di grave dimenticanza di sé. “Proprio per questo, qui al centro, cerchiamo di spingerle ad aprirsi: per offrire un’isola felice dove parlare di sé, dove sentirsi finalmente viste. In famiglia – spiega Lorenza Corradi, councelor del centro – non hanno nessuno con cui parlare, tengono dentro il loro disagio e poi questa cosa, che magari all’inizio è solo una scintilla, si trasforma in un peso difficile da sopportare”. “È importante entrare in maniera più profonda nella loro realtà – concorda Paola Morganti – e dare loro una sensazione di calore umano. Quando accade che si sentono comprese, che si sentono amate, questo fa bene anche a noi”.
Donne dimezzate
In un contesto come quello del centro storico, dove le classi sociali sono mediamente molto basse, la donna ha maggiore difficoltà a far valere la propria dignità. “Per le donne straniere – chiarisce Vittoria Gallo Basteris – i motivi sono di tradizione e di cultura. I motivi culturali riguardano anche la singola donna che, essendo di basso ceto e di bassa formazione culturale, non sa neppure come accedere a quelli che sono i giusti diritti della sua condizione femminile o comunque di essere umano. Noi diamo per scontato che tutte le donne siano consapevoli dei propri diritti ma non è così. La donna sudamericana, ad esempio, esprime la propria identità femminile attraverso il legame con un uomo e i figli. Uomo che spesso l’abbandona e che non si occuperà mai né dei figli, né di loro. Il fatto che difficilmente prendano posizione per me è un modo per non far valere la propria dignità che dipende dalla mancanza dello strumento culturale. Le donne africane, invece, hanno un altro tipo di soggezione che deriva dalla loro cultura islamica, di impronta maschile. In questo caso subentra anche il confine tra religione e legge, che per l’Islam è sottilissimo, e impone a noi di muoverci con estrema cautela. In generale, l’Islam rispetta la donna perché è un elemento importante della continuità familiare, ma poco di più”.
Indubbiamente, e pensiamo soprattutto alle donne straniere di seconda generazione, entrando in contatto con il nostro mondo si trovano a vivere un conflitto tra il desiderio di maggiore libertà e la loro cultura di appartenenza, che certamente amano ma che è estremamente condizionante. “Questa è una delle cose che a me dà più dolore – prosegue Vittoria Gallo Basteris – anzi, sono due. Per prime le donne musulmane che sono qui da trent’anni e non hanno quasi mai messo il naso fuori dalla porta, non parlano italiano e non hanno un circuito relazionale locale. Poi le generazioni più recenti che vivono il conflitto sulla pelle. Soffrono di estraneazione e isolamento perché desiderano non esporre a critiche una cultura che vogliono tutelare e, insieme, aspirano a una maggiore emancipazione. L’Islam è come tutti i mondi: ci sono mille Islam. Abbiamo persone che provengono da una cultura rigidissima, altre più moderne. Quello che ho notato nelle coppie più recenti è una tendenza alla scissione dei matrimoni prefabbricati. Divorzi, separazioni, il centro riesce a dare una mano a queste donne che si sentono condizionate, le aiutiamo a cercare la via per un migliore rispetto di sé stesse”.
Sotto il velo: i mille significati dell’hijab
Come per ogni altra manifestazione culturale che non ci appartiene, anche del velo islamico abbiamo concetti precostituiti e diamo letture superficiali dimenticando di considerare il significato che ha per gli altri. Il velo è una norma coranica. Per l’Islam, la donna deve coprire il capo, la gola e le gambe. Lo dice Maometto e quasi tutta la cultura islamica lo accetta e lo impone.
“Dal mio punto di vista – spiega Vittoria Gallo Basteris – il velo è un’imposizione tradizionale e molto raramente è portato dalla donna come una risposta alla norma coranica. Detto questo, il velo ha tantissime valenze: la donna velata si sente al sicuro perché questo velo connota una cultura, rivendica un’appartenenza e dunque esige rispetto. Allo stesso tempo, però, non nasconde solo le sembianze esteriori ma vela anche l’identità. Mentre all’interno della casa la donna musulmana si agghinda e si trucca, fuori dalle mura domestiche, non deve comparire. Questa è una limitazione della sua espressione identitaria, è un velo che cela l’essere oltre che l’apparire. A me sembra che a dominare sia il concetto tradizionale più che quello religioso. Abbiamo tante donne che vengono al centro e che sono molto religiose ma non portano il velo. Ne abbiamo altre che non lo mettevano e, arrivate a una certa maturità spirituale, hanno deciso di portarlo. Quale il margine di libertà? Non so. Anch’io, nella mia crescita di donna cristiana posso ignorare quale sia il mio margine di libertà. Come problema io lo metto a fattore comune, non riguarda solo una singola cultura”.
Le ragazze sottratte alla tratta
Nel 2015 il centro Mascherona ha iniziato, insieme alla Fondazione Auxilium, un percorso di aiuto alle giovani donne sottratte alla tratta e allo sfruttamento sessuale. “Si tratta di trenta ragazze nigeriane, sbarcate a Lampedusa nell’agosto 2015 e sottratte al mondo della prostituzione – continua Vittoria Gallo Basteris – alle quali offriamo uno spazio di accoglienza, di ospitalità e di formazione”. Infatti al centro le ragazze hanno seguito un corso di attività domestiche che ha permesso a cinque di loro di diventare autonome. “Oggi vivono insieme in un appartamentino e svolgono lavori saltuari – conclude la presidente e sottolinea – qui al CIF le ragazze sanno di avere un gruppo di donne che si occuperanno di loro”.
Vi raccontiamo il CIF Mascherona di Vico Lepre
Simona Tarzia
Sono una giornalista con il pallino dell’ambiente e mi piace pensare che l’informazione onesta possa risvegliarci da questa anestesia collettiva che permette a mafiosi e faccendieri di arricchirsi sulle spalle del territorio e della salute dei cittadini.
Il mio impegno nel giornalismo d’inchiesta mi è valso il “Premio Cronista 2023” del Gruppo Cronisti Liguri-FNSI per un mio articolo sul crollo di Ponte Morandi. Sono co-autrice di diversi reportage tra cui il docu “DigaVox” sull’edilizia sociale a Genova; il cortometraggio “Un altro mondo è possibile” sul sindaco di Riace, Mimmo Lucano; “Terra a perdere”, un’inchiesta sui poligoni NATO in Sardegna.