Mille miglia al di là dei monumenti e delle medaglie vive la memoria. La memoria quella buona, abitata dagli uomini e non dagli oggetti.
Gli uomini parlano, ridono, gridano, soffrono, sono presenze concrete che offrono qualcosa di sé. E a cosa serve la memoria se non a lasciar parlare le voci? Non è, forse, la forma più viva di incontro?
Gli uomini parlano, ridono, gridano, soffrono, muoiono. E a cosa serve la memoria se non a superare il silenzio della morte?
“Siccome quello che è successo è inimmaginabile e indicibile, noi dobbiamo immaginarlo e dirlo. Altrimenti la memoria muore”.
Così Wlodek Goldkorn, nell’ambito delle iniziative organizzate a Genova per il Giorno della Memoria dal Centro Culturale Primo Levi e dalla Fondazione Palazzo Ducale, apre la presentazione del suo ultimo libro “Il bambino nella neve” e comincia il racconto del suo viaggio dentro l’orrore della Shoah, dove nemmeno le pause bastano a misurare i silenzi di chi non c’è più.
La memoria della Shoah è un buco nero che non va riempito con messaggi di speranza o di vendetta, che non può essere solo un ponte di parole gettato lì per unire anime diverse che non si incontreranno mai, un appunto sul calendario, un film guardato in tivvù.
Teso al futuro, risoluto e angosciato insieme, il ricordo ci deve perseguitare ogni giorno, campanello d’allarme, deve diventare parte viva della nostra carne, come una dermatite che certi giorni ci fa impazzire dal prurito.
“Una volta si diceva che nelle miniere, dentro le gabbie, si portassero dei canarini. Sensibili ai gas, sarebbero stati in grado di dare l’allarme e avvertire i minatori del pericolo. Ecco, per me la memoria serve a dare l’allarme quando sento odore di razzismo”.
La memoria della Shoah serve a tutelare e a difendere le istanze di emancipazione, in concreto, oggi e ovunque. Da Aleppo a Gaza al Canale di Sicilia. Serve a trasmettere agli altri il linguaggio della ribellione, della contestazione delle verità del potere. Della memoria va fatto un uso politico, non un dialogo di marionette.
Questa è la condizione per la sua sopravvivenza quando i testimoni diretti saranno tutti scomparsi.
Simona Tarzia
Sono una giornalista con il pallino dell’ambiente e mi piace pensare che l’informazione onesta possa risvegliarci da questa anestesia collettiva che permette a mafiosi e faccendieri di arricchirsi sulle spalle del territorio e della salute dei cittadini.
Il mio impegno nel giornalismo d’inchiesta mi è valso il “Premio Cronista 2023” del Gruppo Cronisti Liguri-FNSI per un mio articolo sul crollo di Ponte Morandi. Sono co-autrice di diversi reportage tra cui il docu “DigaVox” sull’edilizia sociale a Genova; il cortometraggio “Un altro mondo è possibile” sul sindaco di Riace, Mimmo Lucano; “Terra a perdere”, un’inchiesta sui poligoni NATO in Sardegna.