Incontriamo Christian Abbondanza, presidente della Casa della Legalità ONLUS, grazie a Enrico D’Agostino, suo amico e collaboratore, che ci fa da tramite. È lui che filtra le telefonate, organizza gli incontri e cerca di non far precipitare dall’astratto al concreto le minacce di morte che gli uomini d’onore gli hanno impastato addosso.
Perché la sua è una voce scomoda, che denuncia da tempo i legami tra mafia, politica e massoneria.
Anche su al Nord
Una voce che sarebbe pericoloso ignorare in tempi come questi, mentre si rafforza l’antica consuetudine di considerare lo Stato come un’entità remota e nemica, qualcosa che deve essere subìto come si subiscono la grandine o un’alluvione, e il mito della sopraffazione subentra alla coscienza civile.
Quanto più la Pubblica Amministrazione perde credibilità, tanto più la mafia crea consenso offrendo risposte a esigenze e bisogni che non trovano una soddisfazione adeguata da parte delle istituzioni. In assenza di una politica industriale, ad esempio, le aziende si rivolgono alle organizzazioni mafiose per sfruttare i vantaggi competitivi offerti dai clan che, magari, si occupano anche di smaltirgli i rifiuti a prezzi da discount.
In cambio chiedono soltanto un pauroso rispetto.
Non solo: spesso sono le stesse istituzioni a cercare l’accordo, a usare la mafia perché hanno bisogno del suo capitale sociale.
L’autorità locale mafiosa diventa legalità delegata e la sovranità nazionale si perde tra voti di scambio, subappalti e prestanome.
Questi fenomeni sono resi possibili dal fatto che non esiste più la riprovazione sociale.
Corrotti e corruttori, collusi e mafiosi, delinquenti e affini, suscitano più reverenza che disapprovazione e alimentano il modello di potenza dell’organizzazione mafiosa con la loro impunità, determinata a sua volta dai canali di intermediazione aperti con lo stato.
Su al Nord il quadro è complicato anche dalla mancanza di volontà, prima di tutto politica, di denunciare con chiarezza il grado di penetrazione delle organizzazioni criminali, fino a negarne l’esistenza.
Il negazionismo
“Negare che nel 2017 ci sia la ‘ndrangheta in Liguria è negare l’esistenza del sole”. Si accende l’immancabile sigaretta e comincia a parlare, Christian Abbondanza, facendo nomi e cognomi, quelli che distinguono un’inchiesta da un romanzo.
Il negazionismo è legato all’ignoranza del fenomeno mafioso “non si conosce e quindi non si percepisce” denuncia Abbondanza e aggiunge: “Ormai le mafie sono da vedersi come una cosa sola insieme alla massoneria. Hanno capacità di corrompere e di ricattare, se la corruzione non è sufficiente. La ‘ndrangheta è in grado di condizionare anche chi dovrebbe contrastarla e da qui parte il germe del negazionismo”.
La storia della ‘ndrangheta in Liguria è una storia di vecchia data. La prima inchiesta in cui è stata applicata la legge Rognoni-La Torre fuori dalle regioni storiche della mafia, ha portato in carcere il Presidente della Regione Liguria Alberto Teardo.
Siamo nel 1984.
La sentenza di rinvio dice: “[…] Perché, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, in concorso con altri allo stato non identificabili, costituivano un’associazione a delinquere di tipo mafioso, volta alla commistione di delitti (corruzione, concussione, truffa, estorsione, peculato, porto e detenzione di esplosivi, disastro colposo) e all’acquisizione – grazie alla forza di intimidazione del vincolo associativo e alla condizione di assoggettamento e omertà conseguente, attraverso la oculata occupazione da parte di adepti di posti e funzioni pubbliche e private, costituenti centri decisionali di spesa – del controllo diretto o indiretto di varie attività economiche della provincia di Savona” (Sentenza istruttoria, Savona 24 agosto 1984, fascicolo dattiloscritto, pp. 710-711).
Nonostante gli elementi significativi e inequivocabili rimarcati dalla sentenza, cioè l’intreccio tra sviluppo economico, partitocrazia di provincia e criminalità di stampo mafioso, l’accusa di 416-bis per Teardo cade e per anni si continua a sostenere che la mafia al Nord non c’è. Men che meno in Liguria
Infiltrazione silenziosa
Uno degli esempi più lampanti della forza della mafia è la rinuncia alle modalità eclatanti di controllo, è l’infiltrazione silenziosa che opera attraverso i prestanome, è il suo essere invisibile. Proprio per questo occorre diffondere tra l’opinione pubblica una maggiore consapevolezza , che vada al di là del dato statistico, del singolo scandalo che dura il tempo di una prima pagina e poi scompare dalla memoria.
“La mafia deve essere visibile agli occhi di chi minaccia, perché in questo modo può usare la sua capacità intrinseca di intimidazione” spiega Abbondanza, “ma deve essere invisibile in generale, perché non deve attirare l’attenzione del reparto investigativo o del magistrato che va a vedere come vincono gli appalti, come aprono catene di negozi, come portano voti a quel politico o a quell’altro, indifferentemente dal colore”.
Perché la ‘ndrangheta cerca contatti con tutti: in una situazione socio-politica come quella italiana, dove i partiti non si limitano a indirizzare consensi in campagna elettorale ma sono organizzazioni stabili, che partecipano di tutte le questioni amministrative e le orientano forse più delle stesse istituzioni, averne il dominio, diretto o indiretto, ha una grande importanza per i clan.
“Pare che la Liguria è ‘ndranghetista”
Si esprime così, con una certa ironia, Domenico “Mimmo” Gangemi, capo del locale di Genova e referente della ‘ndrangheta per la Liguria e il basso Piemonte, intercettato con il capo dei capi, Domenico Oppedisano, dalle cimici della DIA nel corso dell’operazione “Crimine”, a Rosarno.
“La Liguria è lo specchio della peggiore Calabria”, conferma Abbondanza e ribadisce come la ‘ndrangheta si sia fatta strada nella regione già dagli anni ’70 del Novecento, quando è diventata camera di compensazione per il coordinamento dei locali presenti in Costa Azzurra. “La nostra regione è stata la porta della ‘ndrangheta al Nord perché l’ha sdoganata verso il Piemonte, la Lombardia e la Francia. In particolare Monte Carlo è diventato uno dei punti nevralgici del potere ‘ndranghetista perché è impossibile avviare attività coordinate di indagine in quanto non si tratta dell’autorità francese”.
La Liguria strategica per le mafie
Secondo l’ultimo rapporto della DNA, la Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo, la Liguria merita nelle indagini un’attenzione particolare in considerazione della sua posizione geografica, strategica rispetto all’Europa, e dei suoi numerosi porti.
In generale, anche se il porto di Genova si configura come lo scalo alternativo a quello storico di Gioia Tauro per il circuito del traffico di stupefacenti, il radicamento della ‘ndrangheta copre l’intero territorio ligure: “La Liguria è tutta ‘ndranghetista – avverte Abbondanza – da Ventimiglia, dove si sono evidenziate contiguità con esponenti del centro destra, fino a Sarzana, dove le collusioni hanno coinvolto esponenti del Centro Sinistra. Non c’è una porzione di territorio che non sia di interesse per le mafie perché ‘Ndrangheta, Cosa nostra e Camorra guardano agli affari.
Un affare è un appalto da milioni di euro o da poche migliaia, perché permette comunque di accreditarsi socialmente creando lavoro. A sua volta il lavoro porta pacchetti di voti che vengono venduti ai politici per ottenere, magari, varianti urbanistiche. Ovunque vi sia la possibilità di affermare un interesse economico, la ‘ndrangheta c’è. E c’è perché il negazionismo e l’ignoranza le permettono di fare quel che vuole. Non abbiamo gli anticorpi”.
Giovanni Falcone diceva che il denaro della mafia comporta necessariamente, prima o poi, la presenza degli uomini e dei metodi mafiosi.
“È possibile – segnala ancora Abbondanza – che su due lotti del raddoppio della linea ferroviaria Genova-Ventimiglia sia documentata per due volte l’infiltrazione mafiosa?
Il primo caso risale al 2005 quando la ditta Scavo Ter S.r.l., impresa della famiglia Fotia, legata alla potente cosca della ‘ndrangheta Morabito-Palamara-Bruzzaniti, realizza un’associazione temporanea di imprese con la Chiaro Vincenzo S.a.S., legata ai Gullace-Raso-Albanese e ai Fazzari. Segue il nuovo appalto alla ditta Tecnis S.p.A., poi sequestrato perché emanazione di cosa nostra catanese. Questi divorano l’economia. L’uccisione della democrazia parte da lì, dal condizionamento dell’economia, dal condizionamento del voto”.
La macchina del fango
Contesti? Indaghi? Denunci? È fuori dubbio che la macchina del fango contribuirà a fabbricare una nuova proiezione del tuo operato, della tua lotta.
Sono sotterfugi che Abbondanza conosce bene e che subisce di persona, con le denunce per diffamazione ricevute dai mafiosi. Sono denunce che non portano a nulla ma servono per impegnare le sue energie, per distrarlo dal suo impegno, dalla sua lotta: “Perché prima di passare all’eliminazione fisica, che è un atto eclatante, provano ad eliminarti socialmente, screditandoti. Costruire obiettivi fasulli è una capacità che la mafia ha sempre avuto nel suo rapporto con la massoneria e con i corpi riservati. Un collaboratore di giustizia, Francesco Oliverio, nel processo “La Svolta” ha parlato esplicitamente del corpo riservato. È fatto da soggetti che appartengono anche alle istituzioni e che la ‘ndrangheta usa per colpire chi la contrasta. E ciò accade perché anche l’informazione è piegata e i giornalisti coraggiosi vengono messi ai margini in favore di quelli più apprezzati dal potere, quel potere che ha i legami con questo mondo criminale”.
La pigrizia delle persone è la prima arma della mafia
La mafia usa come un’arma la pigrizia dell’uomo della strada che prende per buona la prima dichiarazione che gli capita di leggere. Poco o niente valgono le smentite.
Un esempio indicativo è quello del Prefetto di Genova, Francesco Musolino: “A Musolino, hanno preparato una polpetta avvelenata, quella del bagno d’oro”, denuncia Abbondanza e aggiunge: “Tutti l’hanno considerato sua responsabilità quando, invece, la sua responsabilità era quella di aver portato avanti un lavoro, cominciato dal Prefetto Annamaria Cancellieri, sul monitoraggio e il contrasto alle infiltrazioni della ‘ndrangheta negli appalti pubblici, nella gestione delle cave, nei traffici di rifiuti tra Liguria e basso Piemonte”.
Il bagno d’oro, in realtà, era stato commissionato dalla gestione che faceva capo al Prefetto Giuseppe Romano, grande negazionista della presenza mafiosa in Liguria.
“Dal punto di vista mediatico – continua Abbondanza – era stata costruita una campagna che indicava come responsabile il Prefetto Musolino, che aveva fatto scattare le prime interdittive antimafia in Liguria. Quindi bisognava colpirlo, screditarlo in qualche modo. Hanno usato quello strumento”.
Le inchieste in Liguria e la linea dura dei magistrati al Sud
“In Liguria c’è questa cecità per cui, spesso, noi (Casa della Legalità, N.d.A.) denunciamo delle cose che poi trovano una risposta in ambito giudiziario cinque, sei o dieci anni dopo”, fa notare Abbondanza e subito dopo elenca le date “abbiamo cominciato a lavorare su Gullace e la sua cosca, con i connessi Mamone, nel 2004. L’operazione Alchemia che ha portato alla decapitazione della cosca deiGullace–Raso–Albanese è del 2016. È partita dalla Direzione Distrettuale Antimafia (DDA) di Reggio Calabria nonostante la Procura di Savona, il Servizio Centrale Operativo (SCO) di Genova, la squadra mobile di Savona e la Direzione Investigativa Antimafia (DIA) di Genova abbiano fatto loro l’indagine. È significativo che sia stata la DDA di Reggio Calabria a colpire quella cosca ed è significativo che, nonostante quell’indagine abbia messo in evidenza la capacità di condizionamento di più Comuni e amministrazioni da parte dei Gullace, ad oggi non ci sia stato alcun provvedimento da parte dell’autorità preposta che è quella di Genova. È ovvio che la competenza sulle collusioni con le amministrazioni liguri non l’abbia Reggio Calabria”.
“La Svolta”
La presenza della ‘ndrangheta in Liguria è stata riconosciuta processualmente per la prima volta con la sentenza del 7 ottobre 2014, emessa nel procedimento “La Svolta” dal Tribunale di Imperia, che condanna 27 imputati, tra capi e affiliati, di un sodalizio operante nei comuni di Ventimiglia, Bordighera e Diano Marina.
La pronuncia sarà in parte ribaltata dalla sentenza d’appello del Tribunale di Genova che identifica il fenomeno solo a Ventimiglia.
“Al Sud i magistrati vanno dritti per la loro strada: Nicola Gratteri, Giuseppe Lombardo, Federico Cafiero De Raho, Pierpaolo Bruni”, commenta Abbondanza e chiarisce: “Il problema è che manca questa determinazione al Nord. La capacità di colpire, colpire, colpire, ripetutamente le cosche. Perché se domani confischi dieci milioni di euro, dopodomani, col traffico di cocaina, ne hanno già altri venti da investire. Bisogna adottare la linea di Reggio Calabria, una linea che dice che i figli minori dei condannati al 416 bis vanno tolti alle famiglie”.
La’ndrangheta è differente da “cosa nostra”
La ‘ndrangheta ha una conformazione diversa rispetto a Cosa nostra, è un vincolo di sangue. La ‘ndrina è la famiglia e, allo stesso tempo, è un’unità territoriale di ‘ndrangheta che mutua il proprio nome direttamente dal cognome della famiglia stessa o da quello di più famiglie che hanno stretto legami di matrimonio. I figli respirano la vita e la cultura mafiosa.
“Se vai a denunciare, denunci tuo padre, tua madre, tuo fratello” fa notare Abbondanza, “sono pochissimi i casi di dissociazione perché dissociarsi significa rompere i legami familiari. I bambini sono uno strumento: da adulti perché portano avanti le attività dell’organizzazione, da piccoli perché diventano mezzo di ricatto. Ci sono collaboratori di giustizia che non possono vedere i propri figli perché stanno con l’altro coniuge che rimane legato al nucleo ‘ndranghetista. Altri sono costretti a ritrattare o ad abbandonare il percorso di collaborazione perché sui figli incombe una minaccia di morte e il collaboratore sa che il piccolo ce l’hanno in mano loro. I minori vanno tutelati portandoli via alle famiglie di ‘ndrangheta perchè altrimenti li condanni. Ma ci sono delle incongruenze tra la lotta portata avanti a livello giudiziario e quella sociale, che poi è il piano sul quale si potrebbe battere la ‘ndrangheta ”.
Mi torna in mente un’intervista di Giovanni Falcone che riporta le parole di Tommaso Buscetta: “L’avverto signor giudice, non credo che lo Stato italiano abbia veramente l’intenzione di combattere la mafia”.
Simona Tarzia
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Sono una giornalista con il pallino dell’ambiente e mi piace pensare che l’informazione onesta possa risvegliarci da questa anestesia collettiva che permette a mafiosi e faccendieri di arricchirsi sulle spalle del territorio e della salute dei cittadini.
Il mio impegno nel giornalismo d’inchiesta mi è valso il “Premio Cronista 2023” del Gruppo Cronisti Liguri-FNSI per un mio articolo sul crollo di Ponte Morandi. Sono co-autrice di diversi reportage tra cui il docu “DigaVox” sull’edilizia sociale a Genova; il cortometraggio “Un altro mondo è possibile” sul sindaco di Riace, Mimmo Lucano; “Terra a perdere”, un’inchiesta sui poligoni NATO in Sardegna.
Ho un libro di Guido Quaranta del 1993 – Ed. Longanesi &C – che racconta le dichiarazioni e le relative gaffes e contraddizioni, a volte al limite dell’umorismo, degli uomini del Palazzo sul fenomeno mafioso. Il titolo? “SCUSATEMI, LA MAFIA NON ESISTE”.
Siamo ancora allo stesso punto?
Non proprio allo stesso, ma quasi. Il problema è che nel mentre questi “signori” si sono evoluti.