Genova – In un mondo dove predomina il precariato, dove il lavoro non è tenuto in considerazione per la dignità che offre, la Diocesi di Genova è in prima linea nelle fabbriche, accanto agli operai, agli impiegati, agli esclusi. Perché chi perde il lavoro è un emarginato, invisibile agli occhi di questa società fatta di speculatori.
Una società che si riempie la bocca di flessibilità come fosse l’unico rimedio per uscire dalla crisi economica.
Ma qual è il prezzo che il lavoratore paga in termini di identità personale? Quando il contesto lavorativo ruota tutt’intorno al breve periodo, come può il lavoratore costruire un’idea vincente di sé, un’idea che gli permetta di programmarsi un futuro?
“La precarietà ha portato nelle persone una grande fragilità – spiega Don Moretti – perché ha portato via il senso del futuro. Tutto diventa contingente, legato soltanto all’oggi”.
È così che si creano le periferie esistenziali, luoghi di esclusione, insicurezza, impotenza.
“Il lavoro non è un optional – continua Don Moretti – e le aziende devono darsi nuove priorità che abbiano al centro l’uomo e non il profitto. Le aziende devono ricordare che portano con loro una responsabilità sociale, fatta di famiglie che sull’azienda hanno costruito la propria esistenza, e che non si possono sradicare dal territorio senza violentarlo”.
Perché chi perde il lavoro è come un mutilato, tormentato di continuo dal prurito di un arto che non ha più e che pure si fa sentire picchiando nel cervello, tutti i giorni, ininterrottamente.
La storia dei cappellani del lavoro
La Diocesi di Genova è l’unica al mondo a possedere la figura del prete che visita quotidianamente le fabbriche. La storia dei cappellani del lavoro inizia dunque a Genova, nel 1943, nel pieno del secondo conflitto mondiale, quando gli ambienti operai più combattivi danno inizio alle agitazioni contro il regime.
La loro presenza si rivelerà essenziale per dare sostegno alle famiglie dei lavoratori quando, dopo lo sciopero del 9 giugno 1944, il comando militare tedesco presente in città decide il rastrellamento di 1.488 operai.
Le fabbriche colpite sono la Siac di Campi, il Cantiere, la San Giorgio e la Piaggio di Sestri.
È il 16 giugno 1944.
Gli operai sono deportati a Mauthausen.
L’opera dei cappellani continua nel dopoguerra e passa attraverso tutti i momenti difficili del nostro Paese: lo scontro tra PCI e DC, quando per un prete era molto difficile entrare in fabbrica, poi gli anni di piombo, segnati da forti tensioni e gravi vertenze sindacali che hanno reso più solido il rapporto fra cappellani e mondo del lavoro, per arrivare ad oggi, alle multinazionali della globalizzazione, più problematiche da intercettare e dove è molto più complesso riuscire a creare un clima favorevole al dialogo tra le parti sociali, le istituzioni e gli stessi imprenditori.
Oggi i cappellani del lavoro sono 10, di cui solo 2 a tempo pieno. Gli altri sono parroci di piccole parrocchie, che ritagliano il tempo per questa attività dai loro impegni.
Tra gli impegni della Diocesi di Genova c’è anche la scuola politica, nata nel 2016, che ha l’intento di fornire ai giovani un nuovo strumento per partecipare alla vita delle istituzioni, mutuato dai concetti della dottrina sociale della Chiesa.
“Non abbiamo bisogno di nuovi politici ma di un modo nuovo di fare politica” precisa Don Moretti che aggiunge: “Anche il Sindaco Marco Bucci ha seguito i nostri corsi”.
Simona Tarzia
Sono una giornalista con il pallino dell’ambiente e mi piace pensare che l’informazione onesta possa risvegliarci da questa anestesia collettiva che permette a mafiosi e faccendieri di arricchirsi sulle spalle del territorio e della salute dei cittadini.
Il mio impegno nel giornalismo d’inchiesta mi è valso il “Premio Cronista 2023” del Gruppo Cronisti Liguri-FNSI per un mio articolo sul crollo di Ponte Morandi. Sono co-autrice di diversi reportage tra cui il docu “DigaVox” sull’edilizia sociale a Genova; il cortometraggio “Un altro mondo è possibile” sul sindaco di Riace, Mimmo Lucano; “Terra a perdere”, un’inchiesta sui poligoni NATO in Sardegna.