l.c.: “È proprio vero, probabilmente, si viveva meglio quando si stava peggio. Si stava meglio quando si era più poveri di cose ma più ricchi nello spirito.”; “Ai miei tempi…”
“Si stava meglio quando si stava peggio” è un luogo comune della grande famiglia della “nostalgia” (“Ai miei tempi…” “Quand’ero giovane io…”), ma in più si codifica con l’ulteriore suggestione di un paradosso. Si tratta di un luogo comune che in realtà, ne contiene due. Vediamoli.
Il primo è esistenziale, ed è ciò che genera il paradosso. Per capirlo meglio, sciogliamolo: si stava meglio, nel senso che si era più felici, maturi e integri moralmente quando le condizioni socio-economiche erano ristrette e le esigenze sociali (militari, economiche etc.) richiedevano un particolare impegno collettivo, esaltando comportamenti sobri e essenziali. Questo luogo comune è vivo e vegeto ancora oggi, ma è addirittura ai romani e in particolare a Marco Porcio Catone, conosciuto come “il censore” che si deve questa visione del mondo. Alla Roma “ellenista”, influenzata dalla cultura greca e mediorientale, che favorivano stili di vita raffinati e oziosi, Catone opponeva lo stile della prima Roma “etrusca”, marziale e sobrio, poco disposta alle mollezze della vita agiata e ai piaceri della ricchezza. Nella sua vita di militare e politico lottò con tutta la sua forza contro questi cambiamenti che secondo lui, corrompevano la qualità dell’esistenza e la stessa Roma. Di lì in poi, il luogo comune secondo cui la sofferenza e il dolore avvicinano l’umanità e rendono la vita migliore è stato un caposaldo delle vecchie generazioni di ogni epoca. Eppure, a ben vedere, si tratta di un concetto opinabile abbastanza facile da smentire: per guardare alla nostra epoca quando ero bambino io (anni ’70), le case erano rivestite di amianto, i nostri genitori facevano lavori usuranti e pericolosi, mangiavamo schifezze piene di coloranti cancerogeni, si accedeva a locali pubblici sporchi dove si fumava rendendo l’aria irrespirabile, chi fumava moriva facilmente di cancro senza sapere che la sigaretta era la causa e se andavi dal dentista soffrivi le pene dell’inferno. Potrei andare avanti all’infinito. La situazione politica, poi, non era migliore: USA e URSS aspettavano solo una buona occasione per lanciarsi qualche bomba atomica, in Italia si piazzavano bombe nelle piazze e si sparava nelle gambe a gente che usciva per andare a lavorare la mattina. Insomma, una pacchia.
Come dicevo, però, questo luogo comune particolarmente suggestivo, ne contiene un altro, più lineare, ma allo stesso tempo ancora più persistente, secondo cui è meglio tutto ciò che è stato nel passato. L’unico che poteva avere qualche ragione era il buon Noè che grazie anche alla memoria di Matusalemme (suo nonno) poteva risalire la sua parentela sino a quando bazzicava ancora intorno al Paradiso Terrestre e qualche ragione poteva pur averla. Da allora, quasi automaticamente, si ritiene forse per questo riflesso istintivo presente nell’uomo già dai suoi albori, che le epoche che ci hanno receduto siano state migliori di quelle che stiamo vivendo.
In uno dei più bei film di Woody Allen degli ultimi anni, “Midnight in Paris” questa particolare visione del mondo viene efficacemente affrontata nella storia di una scrittore americano in vista alla “ville lumierè” , nostalgico degli “anni ruggenti” parigini che per un incantesimo, allo scattare della mezzanotte, riceve un passaggio da un’auto d’epoca e viene trasportato nell’epoca dei suoi sogni, negli anni venti della “Generazione perduta” tra Ernst Hemingway, Zelda e Scott Fitzgerald, Picasso e Salvador Dalì. Qui conosce la bella e sofisticata Adriana, di cui si innamora e insieme subiscono lo stesso incanto dello scrittore trasportati nella Belle Époque, quella che Adriana considera la vera “età dell’oro” rispetto alla sua. Adriana lo lascerà per rimanere nell’epoca dei suoi sogni. Lo scrittore, quindi, scopre che il vagheggiamento di un “glorioso passato ormai perduto” è un istinto ricorrente nello spirito umano, in tutte le epoche storiche, quando si preferisce guardare nostalgicamente a un romantico passato, piuttosto che accettare la durezza e l’insoddisfazione del presente e guardare con timore al futuro.
Per quanto possa apparire soltanto languidamente nostalgico, questo luogo comune contiene in sé il grumo di una nefasta dinamica: l’abbandono del desiderio di cambiare in meglio le cose per rifugiarsi in una dorata e sterile nostalgia. Per quanto sia difficile, il nostro compito è quello di vivere con coraggio e passione il presente, la nostra unica, possibile “età dell’oro”.
Giovanni Giaccone