“Lei non sai chi sono io”
“Prima di andare avanti mi informerei per capire chi hai di fronte”
Un luogo comune italiano talmente diffuso e insito nella cultura del nostro paese che recentemente la cassazione ha ritenuto di classificarlo come reato: «nel reato di minaccia elemento essenziale è la limitazione della libertà psichica mediante la prospettazione del pericolo che un male ingiusto possa essere cagionato dall’autore alla vittima, senza che sia necessario che uno stato di intimidazione si verifichi concretamente in quest’ultima, essendo sufficiente la sola attitudine della condotta ad intimorire e irrilevante l’indeterminatezza del male minacciato purchè questo sia ingiusto e possa essere dedotto dalla situazione contingente».
Al di là della stretta osservanza giuridica, questo luogo comune è antico e da sempre prospera nella quotidianità feroce e insolente dei rapporti soclali ma perché? Proviamo a immaginarlo andando un po’ indietro, all’Italia pre unitaria, una penisola che è un puzzle di piccole monarchie, granducati e repubbliche oligarchiche, insieme al potentissimo stato pontificio. L’interazione tra tutte queste realtà voleva dire un continuo riconoscimento di valori e blasoni, non essendoci una visione unitaria condivisa, ogni stato aveva la sua aristocrazia. Possiamo immaginare, quindi, che il dovuto riconoscimento dello status di ogni diverso rappresentante prima di essere riconosciuto dovesse confrontarsi con un’altra figura, più o meno di pari grado, per stabilire chi avesse il maggiore peso. Un luogo comune che da sempre sottende alla volontà di prevaricazione e di impunità per le proprie azioni. Ne “Il Marchese del Grillo” Alberto Sordi, nei panni dell’archetipo italiano della prevaricazione e dell’impunità, offre una splendida rilettura di questo luogo comune nella sfolgorante frase: “Io so’ io e voi non siete un cazzo”. La frase ideale che ogni italiano scolpirebbe sul marmo pensando a sé stesso.
Con l’Italia unitaria e quindi, successivamente, repubblicana al posto degli aristocratici arrivarono i commendatori, i cavalieri e soprattutto, i politici.
La spocchia, la presunzione, l’impunità e le prevaricazioni anche nelle piccole cose di ogni giorno ha da sempre avuto la sua premessa verbale o la sua spiegazione esplicita nella frase “Lei non sa chi sono io”.
Sempre Alberto Sordi ne “Il vigile” mette evidenzia la contraddizione del vigile richiamato dal sindaco a non guardare in faccia a nessuno nel comminare la contravvenzione, ma quando è lo stesso sindaco a dover essere multato scatta la frase “Ma tu lo sai chi sono io?”.
Non è facile ammettere che in ciascuno di noi, soprattutto in chi per ragioni diverse occupa posizioni di responsabilità e di potere, sia latente la deleteria domanda, l’altro dubbio è quanti di noi sono disposti a soccombere di fronte a questa frase. Forse le regole non si rispettano solo prevaricandole, ma anche, spesso, lasciandosi intimidire, accettando lo “statu quo”, entrando nella “lacaniana” forma del codice osceno, nel respiro aggressivo del vostro banale aguzzino, accettando la prevaricazione e nello stesso tempo, mettendo implicitamente le basi affinchè questa diventi la normalità.
Quanto costa dire di no, opporsi?
Spesso molto, addirittura, a volte, quasi tutto. La dignità di una persona e forse di un intero popolo non si vedono nei grandi gesti, ma nei momenti cruciali della vita quando di fronte agli infiniti marchesi del Grillo del nostro paese si è capaci di trovare il coraggio di dire di no.
Giovanni Giaccone