Glifosate: tutto quello che devi sapere sull’erbicida più diffuso al mondo

È cancerogeno oppure no? Perché il suo impiego genera allarme? L’UE dovrebbe proibirlo definitivamente? E come ci regoliamo con i prodotti di importazione?
Il glifosate continua a far discutere, soprattutto dopo che l’Unione Europea ha rinnovato, nel novembre scorso, l’autorizzazione al suo uso per altri 5 anni.
“Un regalo alle multinazionali” secondo Greenpeace, che “stanno facendo fortissime pressioni per proteggere la loro ricca fonte di guadagno, Monsanto e Syngenta in testa”. Scelta funzionale, invece, per il commissario europeo alla Salute e Sicurezza Alimentare, Vytenis Andriukaitis, che minimizza: “I pesticidi non vinceranno mai un concorso di bellezza in Europa, ma servono”.

Noi proviamo a fare chiarezza con l’aiuto del professor Gianni Tamino, biologo dell’Università di Padova, che ha partecipato come relatore al seminario organizzato a Genova martedì scorso dall’ECOistituto RE-GE: “Evidenze scientifiche per il divieto del glifosato, alternative per il diserbo”.

CHE COS’È IL GLIFOSATE?
Il glifosate, o glifosato, è una sostanza chimica usata come erbicida che ha la caratteristica di seccare la pianta, devitalizzando anche radici e rizomi. Principio attivo del Roundup®, introdotto sul mercato da Monsanto per la prima volta nel 1974, arriverà in Italia nel 1977 come prodotto mirato al contrasto della sorghetta da rizoma presente tra le stoppie di coltivazione e della gramigna nei vigneti.

Da quel momento di strada ne ha fatta tanta: secondo il Rapporto Nazionale Pesticidi nelle Acque pubblicato da ISPRA nel 2016, il glifosate è uno degli erbicidi più utilizzati in Italia e il maggior responsabile dei superamenti dei limiti di qualità ambientali: “Nelle acque superficiali, 274 punti di monitoraggio (21,3% del totale) hanno concentrazioni superiori ai limiti di qualità ambientali. Le sostanze che più spesso hanno determinato il superamento sono: glifosate e il suo metabolita AMPA, metolaclor, triciclazolo, oxadiazon, terbutilazina e il suo principale metabolita, desetil-terbutilazina”.

A livello mondiale, dagli anni ’70 ad oggi ne sono state spruzzate sui campi quasi 9 milioni e mezzo di tonnellate e il mercato è ancora in crescita: uno studio della Transparency Market Research, stima che entro la fine del 2019 le vendite raggiungeranno una cifra pari a 8,79 miliardi di dollari.

È CANCEROGENO?
Sui sistemi in coltura il glifosate è risultato genotossico, cioè capace di indurre mutazioni e dunque potenzialmente cancerogeno.
Gli studi sugli animali e quelli epidemiologici indicano una correlazione tra le zone dove si è usato il pesticida e l’aumento di tumori, come ad esempio il linfoma non-Hodgkin.
Sono questi gli elementi che nel 2015 hanno portato la IARC – l’International Agency for Research on Cancer, costola dell’Organizzazione Mondiale della Sanità – a inserirlo nella lista delle sostanze “probabilmente cancerogene”  in classe 2A, cioè la stessa dove l’Agenzia ha aggiunto anche le carni rosse (a pag. 321 il glifosate).

OPPURE È INNOCUO?
Questa delle bistecche e degli insaccati, che anzi nella scala IARC sono un gradino più su del glifosate, è l’obiezione più gettonata dai fautori dell’uso del pesticida per screditare la classificazione.

E ci si mette anche l’Agenzia Europea per la Sicurezza Alimentare (EFSA) che, sempre nel 2015, pubblica una valutazione rassicurante dove si conclude che “è improbabile che il glifosato sia genotossico o che rappresenti un rischio cancerogenico per l’uomo. Le prove non supportano la classificazione per quanto riguarda il suo potenziale cancerogenico secondo il regolamento (CE) n. 1272/2008″.
Sulla base di questa valutazione, l’Unione Europea ha prorogato fino al 2022 l’autorizzazione al suo uso.

CHI È ESPOSTO AL GLIFOSATE?
Il glifosate è un erbicida utilizzato non soltanto in agricoltura ma anche nel giardinaggio e nella manutenzione del verde urbano. Di conseguenza i primi ad essere esposti sono i lavoratori che lo utilizzano.
Non solo, residui di pesticidi si possono trovare nelle falde acquifere, nei parchi cittadini, sul ciglio delle strade e naturalmente nel cibo. L’uomo è regolarmente esposto a piccole quantità di residui di glifosate in alimenti di prima necessità come pane, cereali e lenticchie (studio ISPRA-ISDE).
I rischi derivano soprattutto dal grano d’importazione.
La maggior parte proviene dal Canada, primo fornitore per l’Italia con 1,2 milioni di tonnellate all’anno, che autorizza i propri agricoltori ad usare il diserbante anche in fase di pre raccolta, con accumulo della sostanza nella pianta. Il risultato è che,  nonostante le restrizioni imposte ai nostri agricoltori, quasi un pacco di pasta su cinque, in Italia, è fatto con grano trattato.

PERCHÈ È STATA DATA UNA PROROGA NONOSTANTE IARC ABBIA EVIDENZIATO UN PERICOLO?
I cinque anni concessi dall’Unione Europea sono un compromesso. La maggioranza degli stati membri era contraria, compresa l’Italia che nel 2016  ha imposto forti restrizioni, ma il colpo di scena della Germania, che si è espressa a favore, ha ribaltato le posizioni.
Un fatto controverso.
Alla Germania, in particolare all’Istituto tedesco per la valutazione dei rischi (BfR), era stato affidato lo studio sul potenziale impatto del glifosate sulla salute umana, studio che riprende un centinaio di pagine dai “Monsanto papers”, cioè i dossier finanziati proprio dal maggior produttore di glifosate e presentati per richiedere il rinnovo dell’autorizzazione per l’erbicida dalla Glyphosate Task Force, un consorzio di aziende europee che commercializzano il prodotto e che ha sede a Darmstadt, in Germania.
I dati del BfR sono quelli utilizzati dall’Agenzia Europea per la Sicurezza Alimentare (EFSA) per confermare l’indicazione di continuare ad autorizzare la vendita del glifosate e su questa base la Commissione Europea ha rinnovato l’autorizzazione.

Immediata la levata di scudi delle organizzazioni ambientaliste: Global 2000, PAN Europe, PAN Germany, PAN Italia e Generations Futures, annunciano un’azione penale contro EFSA e BfR che dovranno rispondere dell’accusa di aver falsificato i dati sulla pericolosità del prodotto anche utilizzando, nelle proprie valutazioni, stralci di documenti scritti dalla stessa Monsanto.
Il dubbio è che si siano utilizzate in maniera fuorviante le notizie fornite dal produttore rispetto a quelle che sono derivate da studi indipendenti e che indicano il pericolo.
E ancora: c’entrano qualcosa con questo copia-incolla le intenzioni del colosso tedesco Bayer di acquisire Monsanto?

Al netto della confusione e delle polemiche, viene da chiedersi quante volte ancora dovremo metterci a contare i morti prima di prendere provvedimenti seri in materia di prevenzione primaria.

Simona Tarzia
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Simona Tarzia

Sono una giornalista con il pallino dell’ambiente e mi piace pensare che l’informazione onesta possa risvegliarci da questa anestesia collettiva che permette a mafiosi e faccendieri di arricchirsi sulle spalle del territorio e della salute dei cittadini.

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