Si fa… ma lo si dice

All’inizio fu “I care” di veltroniana memoria. Mutuato dal cuore della storia americana del Novecento, da Emma Goldman, primo leader-donna di un movimento di massa negli Stati Uniti.

Martin Luther King
Martin Luther King

Poi, negli anni Trenta “I care” è la parola codice di Dorothy Day, organizzatrice e leader cattolica di una rete di solidarietà nel periodo più duro della grande Depressione. Da lei la raccoglie Ben Shan, pittore del realismo sociale, fotografo indimenticato del New Deal di Roosevelt, fondatore di una comunità di utopia negli anni Sessanta. Ma soprattutto “I care” era  la frase scritta alle spalle della scrivania, nell’ufficio parrocchiale del reverendo Martin Luther King, pastore della piccola chiesa di Auburn Avenue di Atlanta, da cui è partito il movimento per i diritti civili. In Italia a sdoganarlo fu don Lorenzo Milani, il prete di Barbiana, della sua scuola non dimenticata e del rapporto con i più giovani e i più poveri. E la traduzione letterale richiedeva un giro di parole “Mi preoccupo”, “Me ne faccio carico”, “ci penso io”. Ovviamente quello che avrebbe dovuto contare era il senso, visto che “I care” era  stata una bandiera di minoranza, anche in America, soprattutto in politica. Perché voleva indicare un territorio che è al di fuori dello scambio e della convenienza.
E, prima di essere un messaggio, avrebbe dovuto essere una forma di identificazione. 

Veltroni e Occhetto
Veltroni e Occhetto ai tempi del PCI

Comunque a Veltroni non portò bene. Non portò bene nemmeno a Matteo Renzi una trasformazione da “I care”, in “Yes, we care”, visti i risultati di tutta la sua vicenda.
Quasi come la “gioiosa macchina da guerra” di Achille Occhetto, il leader appena reduce dalla svolta della Bolognina e dalle ceneri del Pci trasformato in Pds, sconfitto da Berlusconi nel 1994, frase alla quale fu attribuita una capacità di attrarre una sfiga soprannaturale. E lui ironicamente ci fece persino il titolo di un suo libro autobiografico del 2013. Tanto per contraddire chi dice che il Pci/Pds non ebbe mai indomiti condottieri.
Ora Maurizio Martina, segretario nel Pd del dopo Renzi, esponente della sinistra, ma detto “Fra Martina” per i suoi buoni rapporti con i cattolici ci prova con “Si fa!”. Che essendo un imperativo categorico si sposta almeno un po’ da quel “si può’ fare” reso famoso dal Gene Wilder del Frankenstein Junior di Mel Brooks. E in effetti i democratici di Martina per rinascere avrebbero bisogno di rigore e certezze. Quindi “Si fa!”. Con tanto di punto esclamativo che dovrebbe dare proprio certezze.

Maurizio Martina
Maurizio Martina

Lui l’ha presentato così: “In ogni angolo dell’Italia possiamo essere protagonisti tutti i giorni di un cambiamento utile, ascoltando i bisogni dei cittadini, riconoscendone le necessità e mettendoci in azione. La rete delle buone pratiche del Pd è questo. Un contributo volontario e quotidiano per migliorare la vita di quartiere e di territorio unendo le forze, organizzandole e aprendoci a un impegno concreto dai nostri circoli. Il cambiamento della società in meglio si realizza col contributo di tutti, ciascuno secondo le proprie possibilità. La cura della persona e la cura del territorio sono le grandi aree del nostro impegno, coerenti con i valori di solidarietà, giustizia sociale ed eguaglianza che animano l’impegno politico dei democratici dentro e fuori le istituzioni”.
Molte parole per rilanciare l’esigenza del Pd a ripartire dal basso e a farlo sapere, a metterlo in piazza.

Tutto il contrario di una canzone cult degli anni trenta poi riportata in voga da Milly negli anni Sessanta, periodo di rivoluzione sessuale e prefemminista  che, alludendo al rapporto sessuale si intitolava “Si fa, ma non si dice”, con tanto di ritornello incalzante “Si fa, ma non si dice,/si fa, ma non si dice/ e chi l’ha fatto tace,/lo nega e fa’ il mendace/ e non ti dice mai la verita’.  Ah, di fa’ (si’), ma non ti dico (no)/ si fa, poi si rifà (eh)/ pero’ nessun lo dice, ma si sa,/ che ciò’ si fa,/ si fa, di fa”. Mica roba da dilettanti i versi di Gianvittorio Marchese, autore fra l’altro di “Papaveri e papere”, “Fiorin Fiorello”, “La casetta in Canadà’”, o della piu’recente – si fa per dire- “Cantando con le lacrime agli occhi”. Un inno al basso profilo, quello della canzone di Marchese, come quando si dice che se si fa del bene è meglio se lo si tiene per se’. Senza proclami. Mentre, al contrario, in questo caso, in tema di impegno dal basso, il Pd, nel tentativo di non sparire, deve conclamare di esistere. 
Lo esterna anche Martina “Già oggi tanti circoli Pd, spesso senza clamore, danno questo contributo: da chi pulisce il verde pubblico e gli spazi collettivi, a chi organizza ripetizioni agli studenti, corsi di lingue, servizi di informazioni sociali. La rete nazionale vuole essere un progetto aperto di supporto e condivisione per lo scambio di buone pratiche, l’esempio, il supporto operativo e la diffusione dei progetti”.
Epoca di rifondazione, dunque. E si riparte dalle basi, dal partito fra la gente.

Tutt’altra cosa ed epoca quando gigioneggiava un certo Pierluigi Bersani, capo del partito azienda, che rivaleggiava con Maurizio Crozza nel coniare comico surrealismo con i suoi paradossi del buonsenso di matrice contadina. Dal “o ragassi, non siam mica qui a smacchiare il leopardo”, sino all’ “abbiamo smacchiato il giaguaro”. In un crescendo, durante una sfida epica con Crozza che va avanti dieci minuti, e che Fabrizio Roncone, in un articolo su “Il Corriere della Sera” dell’11 giugno di sette anni fa, ha ricordato così: Crozza (ripetendo alla perfezione la voce di Bersani): “Oh, ragassi… siam mica qui a fare la ceretta allo Yeti”.
Bersani (facendo sé stesso): “Oh, ragassi… siam mica qui a fare la permanente ai cocker”.
Crozza: “Oh ragassi… siam mica qui a mettere la crema da barba nei Ringo”.
Bersani: “Oh, ragassi… siam mica qui a spalmare l’Autan alle zanzare”. Crozza: “Oh, ragassi… lo strutto dietetico non esiste mica”.
Bersani: “Oh, ragassi… siam mica qui a rompere le noci a Cip e Ciop”. Crozza: “Oh, ragassi… siam mica qui a mettere il perizoma al toro da monta”.
Bersani: “Oh, ragassi… non è che a Lampedusa montiamo le tende per metterci le tedesche”.
Crozza: “Oh, ragassi… siam mica qui a togliere le occhiaie ai Panda”.
Bersani: “Oh, ragassi… se il maiale vuol diventare una porchetta non va mica dal parrucchiere”.
Vanno avanti così per dieci minuti.

Altri momenti politici, altro rapporto fra la base e la segreteria.
Forse anche grazie agli uffici sarcastico-ironici del buon Crozza. Sembrano anni luce rispetto alla rottamazione di Matteo Renzi. Bersani del resto è il cantore dell’ovvio. Dei giaguari smacchiati, delle bambole da non pettinare, del “sono il candidato di nessuno che pensa ci sia bisogno di tutti”. Sino a proclamare, al termine dell’esibizione con Crozza, “A me piace una politica che si fa prendere in giro ma che non si lascia disprezzare”.
Ipotizzava Silverio Novelli tempo fa, in un lungo articolo sul “bersanese” ricordando il paese di origine dell’allora segretario nazionale Bettola, comune del piacentino di 2673 anime, sinonimo di osteria: “La lingua del Bersani imitato e reinventato da Maurizio Crozza sembra reale quanto quella del Bersani protagonista sul palco dei comizi o incastonato nella poltrona poverista di Ballarò; anzi, è certo non soltanto che Bersani si compiace per le imitazioni di Crozza – poiché stima che rendano le proprie parole ancor più popolari e simpatiche –, ma arriva studiatamente a inglobare il registro comico nei suoi discorsi pubblici di piazza, citando il bersanese riciclato da Crozza”. Un’operazione ben precisa sempre secondo Silverio Novelli  che racconta di Bersani “Senta, io negli anni settanta parlavo in un modo che oggi mi fa quasi schifo: fra il politichese e l’ostrogoto. Ho fatto uno sforzo, adesso credo alla nobiltà della metafora, che consente a tutti di capire”. Insomma, Bersani avrebbe capito che la sinistra non potrà che continuare a essere “antipatica” appena mette il naso fuori dello steccato dei propri elettori tradizionali, se continuerà a soffrire del «complesso dei migliori», che si estrinseca anche in un certo tipo di linguaggio”. Il tentativo di saldarsi di nuovo, almeno un po’, al popolo della sinistra.
Luca Ricolfi, in un suo saggio del 2005 “Perche’ siamo antipatici? La sinistra e il complesso dei migliori” diceva: “Un linguaggio che manda in esilio le cose, e le sostituisce con formule astratte e parole vaghe. Un linguaggio che non può arrivare agli elettori innanzitutto perché richiederebbe un interprete”.

Matteo Renzi
Matteo Renzi

E poi fu la rottamazione con annessi e connessi, dall’altare alla polvere, alla crisi e al mininimo storico. Insomma, fu il cancellare quel buon senso contadino della politica ridotta a messaggio/metafora lanciato in osteria come una battuta durante una mano di scopone. Venne spazzato via dal fighettismo di Renzi, tutto tweetter e abiti Scervino, con tanto di camicia di un bianco immacolato. Il Renzi della presunzione di se stesso, del “Bella l’italia che riparte” e del “Forte l’Italia che decide”. Come se non vi fossero dubbi e il futuro fosse tutto in discesa. E ora il partito stenta a riconoscersi e deve ricominciare da zero. Anzi, da tre, da quel pronome personale riflessivo e quel verbo messi autoritariamente in fila con tanto di punto esclamativo. O da due note una dietro l’altra corredate da un punto esclamativo. Come dire che si (occorre cambia/ cambiare) musica.

Eppero’ devo dire che la formuletta di “Fra Martina” (campanaro dormi tu, dormi tu, suona le campane, suona le campane din,don, dan?), con quel volto da novizio, emaciato, sofferente, affilato – anche ora che si è tagliato la barba – e la intuizione dei suoi creativi, non mi convince E pur nell’immediatezza, la forza dello slogan sull’immaginario che dovrebbe sollecitare, purtroppo, mi risulta cosa piuttosto problematica. Capisco che ci sia un’intenzione di rompere con il passato recente e si sia scelta la semplicità a fronte della vanità colta, da salotti borghesi, engagée, in stile Leopolda. Però troppa semplicità. Con il richiamo al fare, come se non bastasse, che fu fortunato slogan di Berlusconi, e fa tanto cattocomunista. O peggio, per certa sinistra, troppo neoliberista. È peraltro vero che nel mondo della creatività della comunicazione, oltre ai soliti stereotipi, visti e rivisti, ormai in campo c’è pochino, e che, assediati come in questo momento dal sovranismo, uno slogan come quello di Veltroni sarebbe stato fuori luogo. Con il tycoon Donald Trump presidente degli Stati Uniti, poi. Nel “si fa!” manca, a mio parere, il respiro lungo della progettazione e della visione in avanti. E c’è al contrario tutta l’impalpabilità di Maurizio Martina. Si riparte da lì, da Martina, dal “Si fa!”. Che probabilmente vuol dire “non gettiamo via il bambino con l’acqua sporca” e proviamo a salvare il salvabile. Per smacchiare il giaguaro, togliere le occhiaie ai panda, fare la ceretta allo yeti, spalmare l’Autan alle zanzare  – che con questo caldo non si sa mai – e mettere il perizoma al toro da monta, forse, prima o poi, i tempi verranno.

Paolo De Totero

Paolo De Totero

Quarantacinque anni di professione come praticante, giornalista, vicecapocronista, capocronista e caporedattore. Una vita professionale intensa passata tra L’Eco di Genova, Il Lavoro, Il Corriere Mercantile e La Gazzetta del Lunedì. Mattatore della trasmissione TV “Sgarbi per voi” con Vittorio Sgarbi e testimone del giornalismo che fu negli anni precedenti alla rivoluzione tecnologica, oggi Paolo De Totero è il direttore del nostro giornale digitale.

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