L’evento del ponte Morandi pare riassumere in ogni suo passaggio, dalla genesi e dalla sua storia, una sorta di compendio narrativo su come si possa, attraverso precisi atti e successione di azioni attuate o mancate, giungere alla tragedia.
Tragedia che ha avuto nella sua rappresentazione un unico elemento indeterminato, il “quando” l’epilogo si sarebbe compiutamente manifestato.
Una sorta di “corsa contro il tempo”, da quanto si legge, attivata sulla scorta di un’accelerazione delle criticità ma che non è stata in grado di precedere la prefigurazione dello scenario posto a monito finale, il crollo.
Come ha stupito e lasciato incredulo il fatto in sé, così stupisce che l’enormità di una possibile previsione non abbia fatto sì che quella corsa al rimedio non si iniziasse per tempo.
Non si vedono per ora spiegazioni come non si riesce ancora a metabolizzare in pieno la portata del crollo sul futuro.
Con la certezza che il dolore delle famiglie di chi è rimasto vittima segua percorsi che nulla hanno che vedere con i destini di una città, se non per la memoria che il tempo conserverà, voglio provare a scrivere come la frattura urbana, intesa in senso clinico, debba e possa essere superata a partire da alcuni assunti che provo ad enunciare.
Il primo origina dalla constatazione che anche in futuro esisteranno un sopra e un sotto il ponte dove il sotto è città e il sopra flussi di traffico.
All’origine della storia esistevano presupposti molto simili a quelli riproposti in ogni dichiarazione da chi sta ora amministrando Genova e a mio avviso questo non è un caso.
In allora si raccontava di una sorta di prefigurazione della “meraviglia” tecnologica come premessa identitaria di un’infrastruttura e forse senza volerlo si conferiva una identità alla bassa Valpolcevera che era resa riconoscibile esclusivamente per quella immagine.
E sotto al ponte altro non si riscontrava se non il posizionamento in quel preciso cono d’ombra.
Dopo il disastro diviene possibile mettere in relazione il sopra e il sotto garantendo un sorta di rigenerazione urbana in grado di assorbire una parte di risorse per riscattare quegli ambiti.
Ad esempio riprogettando un assetto che vedrà scomparire alcuni degli edifici attuali e che dagli spazi risultanti potrà trovare occasione per una riqualificazione complessiva del quartiere.
Solo cosi il “sotto a qualcosa che verrà” potrà avere un senso.
In quella zona non si è mai realizzato un disegno organico di spazi urbani in conseguenza della morfologia del suolo, l’ampio alveo del Polcevera e la presenza di capannoni per i quali l’immagine non rientrava certamente tra gli obiettivi.
È quindi su quella stretta fascia di case abitate che si dovranno immaginare interventi a scala cittadina mentre sul resto si tenderà al ripristino di una situazione “ante”.
Ma la vera ricerca di identità si dovrà rivolgere all’immagine del nuovo viadotto.
Se si vorrà riscattare una così profonda frattura sarà necessario rifarsi alle premesse che negli anni ’60 hanno generato progetto e realizzazione del viadotto.
Premesse che non erano sbagliate ma che non si sono rivelate in sintonia con l’involuzione dei criteri di tutela che avrebbero dovuto basarsi su una puntuale manutenzione conseguente a seria diagnostica.
Ma l’idea che un’infrastruttura possa esprimere e rappresentare simbolicamente un tassello dell’immagine che Genova vorrà dare di sé, deve essere preservata.
I temi della “meraviglia” si sono espressi da sempre anche attraverso costruzioni iconiche di grande bellezza e di alto valore simbolico, un compendio di tecnologia ed estetica e per Genova un segno evocativo che preservi con la sua sola presenza il ricordo di tanto smarrimento accompagnato da un’idea di futuro.
Per questo non vorrei un viadotto che assolva ai soli requisiti viabilistici ma anonimo e banale, Genova non se lo meriterebbe.
Mauro Marsullo
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