Dal silenzio al blaterMorandi

Ci sono tanti modi per evocare un ponte, fra immagini, fotografie, elaborazioni grafiche a suggerire pensieri, parole, opere e omissioni. Per mestare, rimestare, rimescolare, ribadire, pestare acqua nel mortaio. Acqua che, magari, non macina piu’. Solidarizzando, rievocando, rispolverando, postando, ripostando, polemizzando, correggendo, rielaborando, sottilizzando. E poi unendo, e dividendo. E, ancora, riunendo e ridividendo. Dal silenzio, al ricordo, per tornare al ricordo, alle rimembranze celebrative. Ai progetti verosimili, a quelli inverosimili, con passerelle pedonali e aiuole, quelli a tempo di record e quelli a passo di lumaca. In due settimane siamo sprofondati nel vuoto di una sorta di isteria collettiva, dall’elaborazione del lutto, al facciamo più presto che si può. Dal presto e bene che, secondo antico proverbio, non vanno mai bene insieme al “Altro che Genova nel cuore. Se non si fa il ponte subito Genova c’è l’ha nel c…”. Con evidente riferimento al giudice nano di De Andrè con quel cuore troppo troppo vicino … Come l’immagine sfocata di una fotografia che piano piano prendesse corpo materializzandosi, si risfocasse e riprendesse corpo in un’alternanza infinita.

Tutto e il contrario di tutto per una città che non è in ginocchio ma soltanto ferita, che ha capacità e spirito per rimboccarsi le maniche e tornare Superba. Imperativo categorico di quel governatore Giovanni Toti e di quel sindaco Marco Bucci, che non è soltanto genovese, ma anche il primo cittadino. Perciò… veda lei. Anzi vedete un po’ voi. Che lui, da perfetto navigatore, è irriducibile nel tenere la barra a dritta e rintuzzare ogni possibile spunto di polemica. Fra alloggi recuperati e distribuiti tempestivamente alle famiglie sfollate a forza e la cancellazione di una Festa del l’Unità, prima spostata a Pontedecimo e poi negata, che è diventata momento di catarsi per un Pd, abituato ai fasti del tempo che fu; per un Pd che sente il fiato sul collo e il rischio incombente di uscire definitivamente di scena. Costretto a recuperare un palcoscenico che, dopo le boutade dei professionisti del buon Governo sembrerebbe essere finito saldamente nelle mani dei nostri protagonisti del centro destra.
Nelle redazioni un tempo si diceva che una notizia, per quanto grossa e di interesse nazionale possa essere, dopo una settimana è destinata a rinascere e, rinascere ancora, dalle sue ceneri. Come l’araba fenice. L’uccello di fuoco della leggenda, condannato a risorgere perennemente. È soprattutto questione di bravura dei giornalisti nel creare interesse per i suoi fruitori.

E così, tanto per evocare l’immaginario collettivo, nell’attesa che il tracollo della viabilità venga scongiurato, l’iconografia, visto che ormai viviamo nel mondo delle immagini, dei simboli ormai più potenti di parole e ragionamenti, si è passati via via dall’abbraccio delle tifoserie genoane e sampdoriano, a suggerire l’unita’ di intenti dei genovesi, pronti a passare sopra ai rancori della stracittadina e a rimboccarsi le maniche, al nastrino scuro per lutto. Ancora… dal faro luminoso della Lanterna ripiegata su se stessa a piangere a quella listata per la tragedia. Con evidente passaggio da simbolo a simbolo. Un non luogo, quel ponte collassato, diventato nell’immane dramma un luogo identitario per l’intera citta’. E avanti, sino all’invocazione al silenzio per il giorno dei funerale di Stato – della passerella di ministri e oppositori con clacque e fischi – con la divaricazione delle cerimonie funebri private. In segno di cordoglio personale o di protesta.
E poi quei due monconi, simbolo della tragedia, e ancora in piedi, e che dovranno presto essere demoliti, uniti da un enorme cuore formato da 43 cuoricini – quelli delle vittime -. Il logo, con qualche crisma di ufficialità, per una maglietta che presto verrà messa in vendita per incassi solidali devoluti alle famiglie delle vittime e a quelle degli sfollati.

Genova nel cuore
Genova nel cuore

Con il mondo dello sport a interrogarsi. A chiedersi se anche il business del calcio non dovesse essere fermato nella sua strana coincidenza fra lutto nazionale e prima giornata di campionato di calcio. E la toppa del minuto di silenzio, e poi dei 43 minuti in cui i tifosi del Luigi Ferraris il silenzio se lo sono imposto. Mentre tutti i calciatori erano entrati in campo con quella maglietta con i monconi e i 43 cuori a formare un cuore più grosso, quello impresso indelebilmente ormai nella testa dei genovesi. E ancora la rossa Ferrari di Maranello che correrà con quei due spezzoni separati ma uniti dal simbolo del cavallino rampante. Nero in campo giallo. E la scritta “Nei nostri cuori”. Oppure, addirittura, un’altra immagine, con quel che resta del Morandi che, per lanciare un pranzo solidale, ha sostituito il cuore che unisce con un bel piatto di spaghetti fumanti. Perché poi, nel mondo social, è anche questione di pancia. più che di cervello.

Tutto e di più per ricordare i genovesi feriti, le 43 vittime, le famiglie addolorate e quelle costrette ad abbandonare case, ricordi e suppellettili. E a fare i conti con la memoria di chi aveva una casa sotto all’autostrada. Persone deportate per consentire sgombero, demolizioni e rapida e ricostruzione. Con immagini personali che vagano ancora fra rottami di auto e un gattino salvato. Tra pompieri, scout, volontari, sopralluoghi, visite e comparsate, inchieste, rivelazioni, ammonimenti e accuse. Tra promesse e polemiche delle star politiche e delle archistar. Fra traffico intasato, colli di bottiglia, rallentamenti, sollecitazioni ad utilizzare mezzi pubblici, treni, o blablacar. Con l’autunno e la confusione che incombono.

Sino a quando nel bel mezzo di tanto concionare, per mano di Michele Guidi,  fra la simbologia dei ponti che uniscono e non dividono – muri del contrappasso che in modo irridente, al contrario, vengono elevati nelle coscienze di chi ci propina propandisticamente il dramma dell’approdo negato ai profughi a bordo della Diciotti – compare un altro ponte, simbolico, costruito su piloni e con stralli composti da tanti bla, bla bla. Unito, stavolta, non dalla parola silenzio, e nemmeno dalle braccia tese di tifosi, pompieri o volontari della protezione civile, e neppure da un enorme cuore rosso. Ad unire i monconi di bla, bla, bla è ancora un quartetto di bla, bla, bla… e poi bla. È il ponte Blaterando. Che colpisce nell’intimo le nostre coscienze. E un po’ ci fustiga.

Proprio così. Come se fino ad oggi, a due settimane di distanza fossimo stati spettatori e anonimi commentatori del nulla. A creare confusione sulla confusione. A mestare e rimestare, a fomentare e rifomentare trite e inutili polemiche.

E mi piace concludere con le parole di Tiler, piastrellista visionario, accusatore del degrado di manufatti e, forse, anche di quello sepolto, è celato, a forza, nel più profondo delle nostre coscienze. Scrive Tiler, artista con la faccia da scimmia “Non abituatevi mai al degrado, non è la normalità. Siate uniti, amate il vostro vicino, amate il vostro rivale sportivo anche quando non c’è da spalare fango. Non so se abbiamo bisogno di 43 pali della luce sul nuovo ponte firmato Renzo Piano, le vittime non le scorderemo mai. Sicuramente abbiamo bisogno di un nuovo ponte, e non siamo gli unici… l’Italia è un paese costruito negli anni Cinquanta, se non si comincerà a fare sul serio non saranno solo i ponti a cadere”.

Giona 

Paolo De Totero

Quarantacinque anni di professione come praticante, giornalista, vicecapocronista, capocronista e caporedattore. Una vita professionale intensa passata tra L’Eco di Genova, Il Lavoro, Il Corriere Mercantile e La Gazzetta del Lunedì. Mattatore della trasmissione TV “Sgarbi per voi” con Vittorio Sgarbi e testimone del giornalismo che fu negli anni precedenti alla rivoluzione tecnologica, oggi Paolo De Totero è il direttore del nostro giornale digitale.

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