Roma e i maxi processi alle avvelenatrici

Il 331 a.C. fu un foedus annus, un anno terribile, un anno di pestilenza che si portò via alcuni tra i personaggi più influenti di Roma.
Eppure, a renderlo memorabile, non fu un morbo sconosciuto ma il primo processo per veneficium della storia, che sconvolse la città e condannò a morte 170 donne accusate di aver avvelenato i mariti.

Secondo la testimonianza di Livio[1], durante il consolato di M. Claudio Marcello e C. Valerio Potito alcune tra le personalità più in vista nella Roma dell’epoca erano morte in circostanze poco chiare: tutti contraevano la stessa malattia e morivano allo stesso modo. Gli avvenimenti fecero pensare a un’epidemia finché una schiava non si presentò all’edile curule, cioè il magistrato civico, dicendo che, se le avesse garantito l’immunità, gli avrebbe rivelato la causa del contagio che affliggeva i loro concittadini.

L’edile, che in quell’anno era Quinto Fabio Massimo, riferì ai consoli, che riferirono al Senato, che diede la garanzia richiesta. E la testimone vuotò il sacco.
La strage sarebbe stata la conseguenza di una muliebris fraus, vale a dire di criminose pratiche femminili: alcune matrone avevano preparato e somministrato alle vittime delle pozioni fatali.
Non solo.
La delatrice fece dei nomi e invitò i senatori a seguirla in fretta, per coglierle in flagrante.
La situazione prese una brutta piega.
Venti tra le donne accusate furono pescate nelle loro case a cuocere filtri e pozioni sconosciute, e condotte nel foro.
Due di loro, Cornelia e Sergia, si difesero dicendo che si trattava di venena bona, ovvero medicinali fatti apposta per curare l’epidemia, e per questo furono sfidate a bere i preparati davanti a tutti per dimostrare la falsità delle accuse.
Le donne morirono dopo aver tracannato le pozioni.Tutte e venti.
Le loro ancelle, arrestate con una retata, fecero i nomi di un gran numero di matrone, centosettanta delle quali vennero sottoposte a processo, giudicate colpevoli e condannate a morte.

Gli uomini romani temevamo davvero di essere avvelenati dalle consorti infedeli tant’è che, come tramanda Quintiliano, Catone ripeteva che a Roma: “Non c’è adultera che non sia anche avvelenatrice”[2].

E, infatti, il processo del 331 non fu l’unico.
Tra il 184 e il 180 a.C. scoppiò a Roma un’altra strana epidemia che richiese ancora una volta l’intervento del Senato.
La pestilenza era durata tre anni ed era stata tanto seria da aver limitato la capacità dello stato di radunare un numero sufficiente di uomini per l’esercito.
È ancora Livio[3]che ci racconta i fatti, che scrive di funerali in tutta la penisola, di prodigi e sacrifici agli dei.
Che non servirono a niente: alla morte prematura del pretore, Tiberio Minucio, seguì poco dopo quella del console, Caio Calpurnio, e di molti altri uomini illustri.
Il disastro venne considerato un segno dell’ira degli dei e su mandato del Pontifex Maximus, Caio Servilio, i decemviri stabilirono due giorni di preghiere in Roma e in tutte le piazze e i mercati della repubblica: ovunque si vedevano i maggiori di dodici annicon la corona sul capo e rami di alloro in mano.

Ma i romani, si sa, erano uomini pratici, e visto che la malattia aveva colpito tanti e tali uomini importanti da mettere in pericolo gli affari dello stato, il Senato, memore dei fatti del 331, impiegò poco tempo a dare mandato al nuovo pretore, Caio Claudio, di effettuare una quaestio per veneficium, un’indagine per avvelenamento.

In effetti, la morte del console era molto chiacchierata.
I rumores, il gossip di allora, indicavano la moglie come la maggior sospettata.
Si diceva che Quarta Ostilialo avesse avvelenato per spianare la strada al consolato del figlio di primo letto, Q. Fulvio Flacco, che per ben tre volte si era visto rifiutare la candidatura.
“Lascia fare a me– avrebbe detto Ostilia – preparati a fare ancora la richiesta che entro due mesi ti farò console[4]”.
La posizione della madre si fece più sospetta quando Flacco, dopo la morte del patrigno, venne effettivamente eletto, e questo contribuì alla condanna.
Furono 2.000, oltre alla vedova del console, le donne sottoposte a processo. Tutte condannate a morte per il reato diveneficium.

In genere, secondo la consuetudine, le donne non venivano giustiziate nel foro ma consegnate ai parenti che dovevano ammazzarle tramite strangolamento, una morte ritenuta onorevole e che i romani riservavano anche agli uominidegni di particolare rispetto.

Ma davvero le matrone romane erano avvelenatrici di massa? Non è facile dare un’interpretazione di questi avvenimenti.
Di certo le donne conoscevano il modo di preparare medicamenti con le erbe, che usavano soprattutto per confezionare rimedi ginecologici e per procurare l’aborto.
Punito da Romolo con il ripudio[5], l’aborto volontario era vietato anche dalla Lex Cornelia de sicariis et veneficis[6] in quanto ritenuto una minaccia per l’autorità del pater familias alla quale, giuridicamente, le donne romane erano sottoposte.

Tutto questo dimostra, semmai, un problema profondo nel rapporto tra i sessi, inasprito dal fatto che le donne, quelle tecniche da farmacisti le maneggiassero con tale destrezza da rendersi pericolose agli occhi degli uomini, che le temevano.

Simona Tarzia

Note:
[1]Tito Livio, Ab Urbe Condita, libro VIII, 18
[2]Marco Fabio Quintiliano, Institutio Oratoria, 5, 11, 39: “[M. Cato] nullam adulteram non eandem esse veneficam dixit”.
[3]Tito Livio, Ab Urbe Condita, libro XI, 37
[4]Tito Livio, Ab Urbe Condita,libro XI, 37: “Pararet se ad petendum: intra duos menses effecturam, ut consul fieret”.
[5]Plutarco, Βίοι Παράλληλοι, Vita di Teseo e Romolo, XXII, 4
[6]Promulgata da Lucio Cornelio Silla nell’81 a.C., due anni prima che il dictator si ritirasse a vita privata

Simona Tarzia

Sono una giornalista con il pallino dell’ambiente e mi piace pensare che l’informazione onesta possa risvegliarci da questa anestesia collettiva che permette a mafiosi e faccendieri di arricchirsi sulle spalle del territorio e della salute dei cittadini.

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