La stagione dei saldi del patrimonio pubblico, in Italia, inizia ufficialmente nel luglio del 1992 quando IRI, ENI, ENEL e INA vengono trasformate in SpA con un decreto del Governo Amato (art. 15 D.L. n.333/1992 convertito nella Legge n. 359/1992).
È questo, infatti, il primo passo verso la privatizzazione: collocare le quotazioni in borsa.
Il resto viene da sé. L’immissione sul mercato di azioni o obbligazioni, infatti, modifica la natura originaria degli enti che, perso l’obiettivo principale per cui sono nati, cioè la realizzazione dell’efficienza redistributiva e sociale, finiscono per rispondere unicamente a criteri di gestione privatistici che hanno come unico obiettivo il profitto.
Chi guadagna dallo smembramento delle aziende pubbliche sono le multinazionali straniere e i gruppi legati alle grandi famiglie capitalistiche nostrane, che accrescono abbondantemente il proprio potere nell’economia.
A rendere goloso il pacchetto in svendita sono soprattutto il ramo bancario-assicurativo, le società di meccanica di precisione e quelle agroalimentari.
Il caso SME
Prendiamo la SME, ad esempio.
Nel 1992 la controllata dell’IRI viene smembrata in tre società, messa sul mercato e svenduta nei tre anni successivi: Nestlè si aggiudica Italgel, Motta e Alemagna, poi Barilla mette la mani su Pavesi, il gruppo Unilever acquisisce la Cirio-Bertolli-De Rica e, infine, la cordata Benetton-Del Vecchio conquista Gs e Autogrill che rivenderà ai francesi di Carrefour per dieci volte il prezzo d’acquisto.
Questa febbre di apertura al mercato esplode mentre alla presidenza dell’IRI si avvicendano Romano Prodi e Michele Tedeschi, e al Governo Amato si sostituisce l’indiscriminato ricorso alle privatizzazioni del Governo Ciampi che, nel 1993, imprime una secca accelerazione alle procedure di dismissione delle partecipazioni del Ministero del Tesoro nelle SpA (DL 27 n. 389/1993).
Le dismissioni del Credito Italiano
Il 1993 è stato anche l’anno dell’addio alla prima delle nostre grandi banche pubbliche: il Credito Italiano.
La cessione del 58% delle sue azioni ha prodotto ricavi per 1.801 miliardi delle vecchie lire – circa 930 milioni di euro -, a dicembre 2018 Unicredito Italiano capitalizza oltre 21.900 milioni di euro (dati Bloomberg).
Advisor dell’operazione di collocamento del 1993 è la banca Goldman Sachs.
Nel corso degli anni, le banche anglosassoni come J.P.Morgan, Goldman Sachs, Morgan Stanley e Merrill Linch, hanno incassato per la loro attività di consulenza una fetta sostanziosa della torta delle privatizzazioni. Circa l’1%. E senza dover partecipare a un bando pubblico per l’affidamento.
Mario Draghi uno degli artefici delle svendite del patrimonio italiano
Direttore Generale del Tesoro, durante tutto l’arco del boom della svendita del patrimonio pubblico (1991- 2001), è Mario Draghi.
Mario Draghi, Governatore della Banca d’Italia dal 2006 al 2011 e della Banca Centrale Europea dal 2011, è stato vicepresidente di Goldman Sachs per l’Europa dal 2002 al 2005.
Il royal yacht “Britannia”
Ve la ricordate la discussa riunione sul Royal Yacht “Britannia”, ormeggiato a Civitavecchia, nell’ultima estate della Prima Repubblica?
Abbiamo fatto un balzo indietro al giugno del 1992 quando, durante la crociera che porterà sua Maestà Elisabetta II all’Isola del Giglio, su quel panfilo salgono Carlo Azeglio Ciampi, Beniamino Andreatta, i vertici dell’IRI, e Mario Draghi.
“Draghi – scriveva il giornalista Roberto Santoro – ha con sé l’invito ricevuto dai British Invisibles, che non sono i protagonisti di un romanzo complottista bensì i rappresentanti di un influente gruppo di pressione della City londinese, “invisibles” nel senso che si occupano di transazioni che non riguardano merci ma servizi finanziari. I Warburg, i Barings, i Barclays, ma anche i rappresentanti di Goldman & Sachs. Finanzieri e banchieri del capitalismo che funziona, o funzionava, sono venuti a spiegare a un gruppo di imprenditori e boiardi di Stato italiani come fare le privatizzazioni”.
Schemaventotto
Le banche non sono l’unico bene che non ci appartiene più e che continua a fare grossi utili.
Autostrade vi ricorda qualcosa? Un affare d’oro per la famiglia Benetton che inizia con il Governo D’Alema e si conclude con Berlusconi.
Nel 1999 la Edizione Srl, holding della famiglia di Ponzano Veneto, si aggiudica il 30% della controllata dell’IRI attraverso una “scatola finanziaria” costituita ad hoc, la Schemaventotto SpA, che investe nel business 2,5 miliardi di vecchie lire ma si indebita per 1,2 miliardi.
Ricordiamoci di questa cifra.
Quella dei Benetton è l’unica offerta vincolante d’acquisto per il pacchetto azionario che perviene all’IRI perché la seconda cordata, guidata dalla banca d’affari australiana Macquarie Group Limited, si ritira all’ultimo.
Una seconda tranche di acquisizioni va in porto nel 2003 quando Schemaventotto lancia un’Offerta Pubblica d’Acquisto da 6,45 miliardi di euro attraverso una “società veicolo”, la Newco28, e si aggiudica il 54% di Autostrade.
Per ottenere la liquidità necessaria, la Newco28 si rivolge al sistema creditizio quindi, a seguito di una fusione per incorporazione, trasferisce ad Autostrade tutto il debito contratto per acquistarla.
Alla fine del gioco, con gli incassi da pedaggi cresciuti del 21%, tra il 2000 e il 2009 Schemaventotto preleva da Autostrade 1,4 miliardi di euro di dividendi e ne colloca in Borsa il 12%, con un incasso di altri 1,2 miliardi.
Fanno 2,6 miliardi di euro. La famiglia Benetton rientra del debito.
Oggi Autostrade è controllata al 100% da Atlantia SpA di cui i Benetton detengono la maggioranza azionaria – il 30,25% – attraverso Sintonia SpA, subholding di Edizione Srl.
Ce lo chiede l’Europa
La riduzione della presenza pubblica nel sistema produttivo del Paese si avvia formalmente in nome dell’Europa di Maastricht.
Infatti, l’adesione del nostro Paese al Mercato Unico Europeo che entra in vigore l’1 gennaio 1993, impone il rispetto di tutti i parametri di Maastricht, attuati attraverso il Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea e il Patto di Stabilità e Crescita.
Vediamo i vincoli imposti
L’articolo 107 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE) vieta gli aiuti di Stato perché falsano la concorrenza.
L’articolo 123 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE) vieta gli scoperti di conto a enti e imprese pubbliche e l’acquisto diretto di Titoli di Stato dalla Banca Centrale Europea (BCE) e dalle banche centrali nazionali.
Il Patto di Stabilità e Crescita (PSC) prevede il rafforzamento delle politiche di vigilanza sui deficit e i debiti pubblici, imponendo un tetto massimo al deficit annuo del 3% rispetto al PIL, e al debito pubblico del 60% rispetto all’inflazione.
Non solo.
Un impulso determinante al processo di privatizzazione, al netto della grande pressione sul risanamento della finanza pubblica imposta dal Trattato di Maastricht, arrivò da due avvenimenti precisi.
Si legge a pagina 14 del Libro Bianco sulle Privatizzazioni: “Due eventi specifici ebbero un effetto diretto sull’irreversibilità del processo. Il primo fu il cosiddetto “accordo Savona-Van Miert” (1993), che permise allo Stato italiano di varare la ricapitalizzazione della siderurgia – allora in grave crisi – a patto di una sua privatizzazione. Il secondo, di portata ben più ampia, fu il protocollo, siglato nell’estate del medesimo anno, dall’allora Ministro degli Esteri, Beniamino Andreatta e da Karel Van Miert, Commissario europeo alla concorrenza, il cosiddetto Accordo Andreatta-Van Miert. Il protocollo impegnava il governo italiano a ridurre l’indebitamento delle imprese pubbliche fino a portarlo a livelli fisiologici, cioè a livelli accettabili per un investitore privato operante in condizioni di economia di mercato”.
Tutte queste misure accentuano scelte economiche fondate su ipotesi monetaristiche.
Cosa significa? Che l’obiettivo originario previsto dal modello sociale della Costituzione e realizzato attraverso l’economia mista, e cioè la piena occupazione e lo stato sociale, viene sostituito con l’integrazione finanziaria.
TFUE e PSC sono gli strumenti giuridici di cui il liberismo si dota per favorire un’economia di mercato fortemente competitiva e per estromettere dall’iniziativa economica privata l’intervento regolatore dello Stato che vigilava affinché non si creassero contrasti con l’interesse pubblico. La Democrazia ora si identifica con il libero mercato. La Libertà è diventata libertà economica
Ma le privatizzazioni sono davvero servite ad abbattere il debito pubblico?
Oppure la riduzione dell’intervento dello Stato nell’economia è stato solo un mezzo per realizzare una società diversa, una società che privatizza anche il welfare e punta all’abbattimento dell’universalismo dei diritti?
E ancora: se gli stessi personaggi chiave che hanno lasciato il settore pubblico, Mario Draghi ad esempio, li ritroviamo ai vertici delle grandi banche che hanno guidato la svendita del nostro patrimonio nazionale, perché non hanno messo a frutto la loro competenza prima, quando ricevevano uno stipendio pubblico?
Simona Tarzia
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Note:
Senza dimenticare le prime dismissioni del 1986, quando Alfa Romeo (gruppo IRI) passa alla FIAT, e Lanerossi (gruppo ENI) alla Marzotto.
Sono una giornalista con il pallino dell’ambiente e mi piace pensare che l’informazione onesta possa risvegliarci da questa anestesia collettiva che permette a mafiosi e faccendieri di arricchirsi sulle spalle del territorio e della salute dei cittadini.
Il mio impegno nel giornalismo d’inchiesta mi è valso il “Premio Cronista 2023” del Gruppo Cronisti Liguri-FNSI per un mio articolo sul crollo di Ponte Morandi. Sono co-autrice di diversi reportage tra cui il docu “DigaVox” sull’edilizia sociale a Genova; il cortometraggio “Un altro mondo è possibile” sul sindaco di Riace, Mimmo Lucano; “Terra a perdere”, un’inchiesta sui poligoni NATO in Sardegna.