Calci, pugni, sputi, parolacce, urla.
Sono tanti gli episodi di maltrattamenti a danno di bambini, anziani e disabili commessi all’interno di strutture pubbliche e private come asili nido, scuole per l’infanzia e strutture socio-assistenziali.
Luoghi dove, dietro una facciata di efficienza e cordialità, si costringono a subire botte e umiliazioni proprio i più deboli, quelli che non possono difendersi e spesso neppure denunciare.
Così accade che passino mesi prima che un parente si accorga di qualcosa e faccia scattare le indagini di polizia.
E che continuino ad arrivare legnate nell’attesa che il PM, verificata la fondatezza della denuncia, faccia finalmente la richiesta di installare le telecamere.
Questo perché gli inquirenti si muovono all’interno di un quadro normativo che non è proprio al passo coi tempi.
Per cercare di colmare queste lacune, il 23 ottobre scorso la Camera ha approvato un disegno di legge in materia di videosorveglianza, il DDL 897, che intende “prevenire e contrastare condotte di maltrattamento o di abuso, anche di natura psicologica, in danno dei minori nei servizi educativi per l’infanzia e nelle scuole dell’infanzia e degli anziani e dei disabili ospitati nelle strutture socio-sanitarie e socio-assistenziali, nonché di disciplinare la raccolta di dati utilizzabili a fini probatori in sede di accertamento di tali condotte”.
Da ottobre sono passati parecchi mesi e così abbiamo chiesto a Ubaldo Borchi di ANASTE – l’Associazione Nazionale Strutture della Terza Età – a che punto siamo con l’iter legislativo.
“La legge, dopo l’approvazione del consiglio regionale ligure, è passata al vaglio della Camera ma ad oggi è ancora ferma al Senato perchè si attende la pronuncia del Garante della privacy“, spiega Borchi.
Un problema non di poco conto in quanto al momento ne limita l’applicazione. “Infatti è consentito installare telecamere di videosorveglianza solo negli accessi, come in qualsiasi negozio, ma non si possono installare nelle zone comuni, nelle camere da letto e nei bagni”.
Eppure gli accorgimenti tecnici da adottare per garantire la tutela della riservatezza ci sarebbero.
Precisa sempre Borchi: “È sufficiente che le immagini non vadano a monitor, così da non essere visibili al personale, ma solo nei videoregistratori criptati a circuito chiuso da lasciare a disposizione dell’autorità giudiziaria nel momento in cui ci fossero delle contestazioni”.
Non solo.
Sempre per il diritto alla privacy, questa volta dei dipendenti, l’applicazione delle norme sulla videosorveglianza sarebbe subordinata al nulla osta dell’Ispettorato del Lavoro o agli accordi sindacali.
A queste limitazioni Borchi oppone un altro ragionamento che capovolge il punto di vista: “E se le registrazioni, oltre che da deterrente, servissero per tutelare il lavoro degli operatori che lo svolgono in maniera corretta?“.
In effetti, l’occhio elettronico potrebbe essere l’unica via perseguibile per intervenire in modo efficace anche nei casi dubbi.
st
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Sono una giornalista con il pallino dell’ambiente e mi piace pensare che l’informazione onesta possa risvegliarci da questa anestesia collettiva che permette a mafiosi e faccendieri di arricchirsi sulle spalle del territorio e della salute dei cittadini.
Il mio impegno nel giornalismo d’inchiesta mi è valso il “Premio Cronista 2023” del Gruppo Cronisti Liguri-FNSI per un mio articolo sul crollo di Ponte Morandi. Sono co-autrice di diversi reportage tra cui il docu “DigaVox” sull’edilizia sociale a Genova; il cortometraggio “Un altro mondo è possibile” sul sindaco di Riace, Mimmo Lucano; “Terra a perdere”, un’inchiesta sui poligoni NATO in Sardegna.