Aspettando Rousseau…

Mi ero riproposto di passare la giornata del mio compleanno, per i curiosi il mio sessantaseiesimo genetliaco, in tutta tranquillità, trascorrendo in tutt’altro affacendato il mio pomeriggio, e il primo e secondo atto dell’ormai estraniante pratica dell’aspettando Godot. In attesa di sapere, domani, nel tardo pomeriggio, se dopo tanta trepidante attesa, nel terzo, ipotetico atto, Godot si sarebbe alfine mostrato, grazie al vaticinio della piattaforma Rousseau.  Insomma, se l’aspettando Rousseau con votazioni che inizieranno domani alle 9 e finiranno alle 18, si sarebbe potuto trasformare, dopo infinita agonia , e in caso di votazioni favorevoli, nel tanto atteso terzo atto, mai scritto da Beckett, in cui almeno l’iconografia di un qualunque Godot, Conte, Di Maio o chi altri per loro, ma non in loro vece, si sarebbe palesato. Dicendoci, magari con un pizzico di incredulità: “Chessì, alla fine abbiamo un Presidente del Consiglio, che può lavorare alla piattaforma e poi ai nomi dei ministri, dei vicepremier, uno, due, nessuno…. centomila. Prima di presentarsi di fronte al presidente della Repubblica, giurare e poi di fronte alle camere riunite. Sottoponendosi alla gogna del voto di fiducia,  con l’opposizione che schiaccia l’occhio ai franchi tiratori. Come espressione del popolo sovrano.
E così ripensandoci, nella calura estiva, nel torpore che mi sono concesso nel giorno del mio sessantaseiesimo compleanno, mi è passato per la mente che, insomma, il dramma scritto da Samuel Beckett  alla fine degli anni quaranta e associato al cosiddetto teatro dell’assurdo, costruito intorno alla condizione dell’attesa, “Aspettando Godot”,  mettendo al centro del palcoscenico i due barboni nelle vesti dei nostri personaggi politici di primo piano interpreti e protagonisti nelle parti dei due derelitti sempre in attesa, avrebbe potuto costituire una validissima rappresentazione moderna del nostro paese, riveduta e debitamente corretta. L’opera più conosciuta di Beckett venne pubblicata in lingua francese nel 1952, cioè dopo la seconda guerra mondiale, in un’epoca post-atomica. La prima rappresentazione si tenne a Parigi nel 1953 al Théâtre de Babylone sotto la regia di Roger Blin, che per l’occasione rivestì anche il ruolo di Pozzo. Nel 1954, Beckett – autore irlandese di nascita – tradusse l’opera in inglese. Già quei Vladimir (chiamato anche Didi) ed Estragon (chiamato anche Gogo) stanno aspettando su una desolata strada di campagna un certo “Signor Rousseau”, anzi “Godot”.

“Aspettando Godot”, è un dramma del tempo e dell’esistenza umana, dell’inutile attesa di un gesto salvifico che potrebbe non arrivare mai. Non c’è posto neanche per la ribellione, perché alla delusione si accompagna l’apatia di chi non vuole – o non può, in fondo – cambiare il proprio destino. Non vi è nulla sulla scena, solo un albero dietro ai due personaggi che regola la concezione del tempo attraverso la caduta delle foglie che indica il passare dei giorni. Ma Godot non appare mai sulla scena, e nulla si sa sul suo conto. Egli si limita a mandare un ragazzo dai due vagabondi, il quale dirà ai due protagonisti che Godot “oggi non verrà, ma verrà domani”.

I due uomini, vestiti come barboni, si lamentano continuamente del freddo, della fame e del loro stato esistenziale; litigano, pensano di separarsi, anche di suicidarsi, ma alla fine restano l’uno dipendente dall’altro. Ed è proprio attraverso i loro discorsi sconnessi e superficiali, inerenti ad argomenti futili e banali, che emerge il nonsenso della vita umana.

A un certo punto del dramma, arrivano altri due personaggi: Pozzo e Lucky.
Pozzo, che si definisce il proprietario della terra sulla quale Vladimir ed Estragon stanno, è un uomo crudele e al tempo stesso “pietoso”, tratta il suo servo Lucky come una bestia, tenendolo al guinzaglio con una lunga corda. Pozzo è il padrone, Lucky il servo e la corda che li unisce indica un legame reciproco apparentemente inscindibile. I due nuovi personaggi successivamente escono di scena. Didi e Gogo, dopo aver avuto l’incontro con il ragazzo “messaggero di Godot”, rimangono fermi mentre si dicono “Well? Shall we go?” (E ora? Possiamo andare?) – “Yes, let’s go” (Sì, andiamo), e l’indicazione scenica dice ironicamente “They do not move” (Non si muovono). Il linguaggio non riproduce più la realizzazione della volontà individuale. Non esiste più legame fra parola e azione, fra il linguaggio e la storia che dovrebbe esprimere, comunicare e attivare.

Il secondo atto è differente solo in apparenza dal primo: Vladimir ed Estragon sono di nuovo nello stesso posto della sera precedente. Continuano a parlare (a volte con “non senso”, a volte utilizzando luoghi comuni con effetti comici). Ritornano in scena Pozzo, che è diventato cieco, e Lucky, che ora è muto, ma con una differenza: ora la corda che li unisce è più corta ad indicare la soffocante simbiosi dei due. Escono di scena. Rientra il ragazzo che dice che anche oggi il Signor Godot non verrà. Esce. E Vladimir ed Estragon rimangono lì mentre dicono “Well? Shall we go?”“Yes, let’s go”. E l’indicazione scenica che mette fine al dramma dice “They do not move”.

Già la domanda di questi giorni è l’incalzante “E ora possiamo andare?” che si ferma nell’immobilismo assoluto della scena finale con quel  “They do not move” (Non si muovono). Esempio di immobilismo assoluto per rompere il quale ci si attendeva quel  famoso terzo atto che mai fu scritto da Beckett.

Insomma, per farla breve: riusciranno i nostri eroi, o cialtroni legati alla riconferma delle poltrone, secondo l’iconografia sprezzante di chi vorrebbe andare al più presto al voto delle politiche, riusciranno i nostri eroi, o cialtroni che dir si voglia, a mettersi d’accordo? E a darci l’agognata stabilità Mentre l’Europa e non solo ci sta guardando leggermente stizzita da questi tatticismi politici?

Dicono della rappresentazione teatrale, una delle più presenti sui palcoscenici, grandi o piccoli del nostro tempo: “Aspettando Godot”, capolavoro di Samuel Beckett, è un dramma del tempo e dell’esistenza umana, dell’inutile attesa di un gesto salvifico che potrebbe non arrivare mai. Non c’è posto neanche per la ribellione, perché alla delusione si accompagna l’apatia di chi non vuole – o non può, in fondo – cambiare il proprio destino”. E nulla di più vero: “ Non c’è posto neanche per la ribellione, perché alla delusione si accompagna l’apatia di chi non vuole – o non può, in fondo – cambiare il proprio destino”. O forse no.
Con quei due, Pozzo, che è diventato cieco, e Lucky, che ora è muto, ma con una differenza: ora la corda che li unisce è più corta ad indicare la soffocante simbiosi dei due. Che escono di scena. O forse no.

Nella rappresentazione moderna in cui i due assomigliano tanto ai gruppo dei ritrovato centro destra, Salvini- Berlusconi – Meloni. Pozzo cieco, e Lucky che è diventato muto, ricomparirebbero nel terzo atto a farla da padroni. Come vorrebbero con l’ipotesi del voto… “Salvini-Fico”.
Almeno per loro.

Intanto siamo ancora ai tatticismi in casa pentastellata. Osserva “La Repubblica”: “ Il quesito a cui potranno rispondere gli iscritti è: “Sei d’accordo che il MoVimento 5 Stelle faccia partire un Governo, insieme al Partito Democratico, presieduto da Giuseppe Conte?”. La domanda si presenta ben più esplicita di quanto è successo il 18 maggio 2018, quando il quesito che avrebbe portato al governo con Matteo Salvini, non citava esplicitamente la Lega, ma chiedeva solo l’approvazione del “contratto del governo del cambiamento”.
C’è però un altro dettaglio interessante. Secondo quanto potuto verificare da Repubblica, il quesito, che è già pubblicato sulla piattaforma Rousseau, offre agli iscritti due risposte. Il bottone del “No” è il primo ad apparire, sopra a quello del “Sì”. Lo scorso anno, in occasione del governo con la Lega, il “Sì” veniva prima del “No”. La collocazione delle due risposte, dopo la segnalazione di Repubblica.it,  è stata invertita nel pomeriggio”.

Attendiamo fiduciosi. Diceva un’affermata pubblicità: “L’attesa del piacere è essa stessa il piacere”. Magro assunto consolatorio visto che domani sera o forse a qualche giorno di distanza potremmo ritrovarci sfibrati da una calda, afosa è pazza estate con un pugno di mosche in mano per ricominciare tutto da capo fra spread, mancanza di posti di lavoro, crescita zero. E un’Europa sempre più stizzita. Mentre Godot, Rousseau, o chi per loro, ancora una volta non si palesa.

“Italiani Brava gente?” è il titolo di un libro storico del 2005 di Angelo Del Boca, novantaquattrenne giornalista, scrittore e storico. Un testo in cui ripercorre la storia nazionale dall’unità a oggi e compone una sorta di “libro nero” degli italiani, denunciando gli episodi più gravi, in gran parte poco noti o volutamente e testardamente taciuti e rimossi. Si va dalle ingiustificate stragi compiute durante la cosiddetta “guerra al brigantaggio” alla costruzione in Eritrea di un odioso universo carcerario. Dai massacri compiuti in Cina nella campagna contro i boxer alle deportazioni e agli eccidi in Libia a partire dal 1911. Dai centomila prigionieri italiani lasciati morire di fame in Austria, durante la Grande Guerra, al genocidio del popolo cirenaico fino alle bonifiche etniche sperimentate nei Balcani.

Già il mito degli “Italiani Brava gente” vacilla. È vero che nell’ultimo secolo e mezzo molti altri popoli si sono macchiati di imprese delittuose, quasi in ogni parte del mondo. Tuttavia solo gli italiani hanno gettato un velo sulle pagine nere della loro storia ricorrendo ossessivamente e puerilmente a uno strumento autoconsolatorio: il mito degli “Italiani brava gente”, un mito duro a morire che ci vuole “diversi” più tolleranti, più generosi, più gioviali degli altri, e perciò incapaci di atti crudeli. E a noi piace descriverci così, nonostante l’intolleranza in crescita, i porti ostinatamente chiusi, la guerra politica o per le poltrone, l’instabilità economica, i miraggi della guerra alla povertà, le periferie ghetto, la mafia economicamente penetrante, la questione meridionale sempre aperta. Aspettando Godot, o Rousseau, per capire e vedere se è proprio impossibile cambiare. E se “Non c’è posto neanche per la ribellione, perché alla delusione si accompagna l’apatia di chi non vuole – o non può, in fondo – cambiare il proprio destino”.

Paolo De Totero

Paolo De Totero

Quarantacinque anni di professione come praticante, giornalista, vicecapocronista, capocronista e caporedattore. Una vita professionale intensa passata tra L’Eco di Genova, Il Lavoro, Il Corriere Mercantile e La Gazzetta del Lunedì. Mattatore della trasmissione TV “Sgarbi per voi” con Vittorio Sgarbi e testimone del giornalismo che fu negli anni precedenti alla rivoluzione tecnologica, oggi Paolo De Totero è il direttore del nostro giornale digitale.