A çimma du Scindico…ovvero la passerella di Mr. Bucci

La svolta, lasciatemelo dire, potrebbe risultare persino inquietante.
Perche’ solitamente io talvolta l’abbino all’inconscio, o addirittura – diciamocelo- alla contezza, di un’esperienza in fase terminale. Se non addirittura conclusa. Una virata brusca per quanto riguarda gli interessi. Due casi per tutti, quelli di Manuela Arata, ex mente del Festival della Scienza, bruscamente sospinta all’uscita durante l’amministrazione del fu marchesino, l’algido Marco Doria, poi supersaggio del nostro amato sindaco Marco Bucci, e, ad accompagnarla, Renata Briano, ex assessore della giunta regionale del fu Claudio Burlando da Marzano, poi europarlamentare, che, non riconfermata, ha scelto di occuparsi a tempo pieno di un blog di cucina. Donne, dira’ qualcuno. E mi si passi la battuta di genere. Donne in carriera che, osserverà qualcun’altro anche lui sessista, hanno deciso di tornare alle origini. Vabbe’, il food è in molti casi l’estrema ratio per riciclarsi. Almeno un po’. Un modo come un altro disporre di una certa visibilita’ social.

E non è finita qui. Non c’è stato per esempio un altro noto assessore della giunta Burlando? Quell’Enrico Vesco, assessore “ duro e puro” della sinistra al Lavoro, Trasporti, immigrazione ed emigrazione che, a fine carriera, ha deciso di rifiatare aprendosi un ristorante, la “Locanda del viandante”, a Vezzano Ligure.

 Svolta mai banale per uno del calibro di Vesco che, prima di arrivare agli incarichi amministrativi in Regione Liguria, era stato per cinque anni il segretario particolare di Nerio Nesi, il banchiere rosso, transitato come presidente della commissione attività produttive della camera dei deputati e poi diventato ministro dei lavori pubblici. Vesco, oltre tre anni fa, dopo svariate stagioni di lavoro politico fra Comune e Regione, ha deciso di cambiare attività. E Tripadvisor con le sue recensioni lo premia.

Insomma pare che dopo la politica il passo quasi obbligato porti fra i fornelli o a dispensare ricette sui social e in tavola.

Per questo motivo mi ha un po’ raggelato la scelta di Mister Bucci, “sono il sindaco veda un po’ lei”, di lasciarsi andare ad un post di cucina con tanto di suggerimento per le feste. Per carità, poche concessioni all’estro, un piatto tipico che fa parte della nostra tradizione. Né più’ né meno del vessillo di San Giorgio, la croce rossa in campo bianco. Ne’ piu’ ne’ meno dell’ ultima visita alla Lanterna. Oppure dell’anelito ridotto a slogan da cravatta: “Femmo torna Zena superba”. Must donato, recentemente, anche al premier Giuseppe Conte. Comunque, insomma, una ricetta in linea con la nostra tradizione. Anzi di più…. della tradizione natalizia. Ovviamente cristiana, ovviamente genovese.

E quindi, ovviamente  “A cimma”. Quella cantata da Fabrizio De Andre’, quella del ritornello… “Çé serén tèra scûa/carne ténia nu fâte néigra/ nu turnâ dûa/ e ‘nt’ou núme de Maria/ tûtti diaì de sta pûgnatta/ anène via”.
Eggià, tra riti e cucina. Come è tradizione, specie vicino alle feste. Tra credenze, scaramanzie e malocchio. Che la cima ha un punto debole, dopo la cucitura “cun dui aguggiuîn dritu ‘n púnta de pe’/ da súrvia ‘n zû fitu ti ‘a punziggè”. Perché l’operazione di cucitura è fondamentale. Gonfiando la sacca potrebbe scoppiare disperdendo tutto quel ben di Dio nel brodo.

Un piatto introspettivo, racconta un anonimo chef “Son certo che se mia nonna Ersilia fosse ancora qui, si sarebbe alzata la vigilia di Natale alle prime luci del mattino per cucire la cima, prepararne la farcitura secondo la tradizione e cuocerla in un pentolone pieno d’acqua a fuoco lento per almeno tre ore. Non è ben chiara l’origine temporale di questo piatto, ma di certo questa era l’usanza delle donne genovesi del ‘900 con l’approssimarsi delle feste”. Che poi è il senso della canzone di Fabrizio.

E quindi, visto che gli alberelli, a cui appendere palle e palline, e stelle di buoni propositi e desideri, sono già stati tirati su a De Ferrari, come a Sampierdarena – perché almeno nelle feste anche le periferie devono poter accarezzare l’illusione di contare, se non quanto gli altri almeno qualche cosa in una città falsamente policentrica – il nostro beneamato Sindaco contribuisce a scaldare i nostri cuori e l’atmosfera. Come? Postando papale papale sul suo profilo istituzionale il suo personalissimo augurio:  “Buona domenica genovesi! Ma voi avete provato a preparare uno dei piatti della nostra tradizione: la cima. Eccovi la ricetta”.

Già, la ricetta, con tanto di indicazioni storico/sociologiche: “Nata già nel XVI sec., secondo dicerie dalla tirchieria dei Genovesi, che così avrebbero risparmiato sulla carne, riempiendola di ingredienti meno pregiati e costosi, si è trasformato in uno dei piatti più ricchi della tradizione genovese”. E poi tutto il resto: “Ingredienti: 700 g pancetta di vitello, tagliata in un solo pezzo e sottile, cucita poi a sacco con apertura da una sola parte; mezza cervella; 50 g di poppa; 100 g di animelle; 100 g di filoni; 200 g di polpa di vitello; olio extravergine d’oliva, 6 uova; 100 g di parmigiano grattugiato; 30 g di pinoli; 200 g di piselli freschi; qualche foglietta di maggiorana; 2 spicchi d’aglio; 1 cipolla; 1 gambo di sedano; 1 carota; sale e pepe q.b.”. Infine la preparazione, a cui De Andre’ nel suo brano dedica tutta la sua attenzione, fra riti e scaramanzie. “Procedimento: Rosolate la polpa di vitello a pezzetti e le frattaglie (precedentemente sbollentate e private della pellicina). Fate raffreddare e quindi tagliate a pezzi piccolissimi. In una terrina sbattete le uova con il parmigiano e aggiungete l’aglio e la maggiorana tritati, i pinoli, i piselli sbollentati, il pepe e il sale. Mescolate con cura e riempite la sacca di carne per due terzi. Cucite quindi il lato aperto con del filo resistente per alimenti, avvolgete la cima con una tela bianca e ponetela in abbondante acqua tiepida, salata e insaporita con la carota, il sedano e la cipolla. Fate bollire lentamente per almeno 2 ore, pungendo di tanto in tanto con un ago di modo che la cima non si apra. A cottura ultimata, scolate, togliete la tela, mettete la cima tra due piatti con sopra un peso e fate raffreddare per circa due ore”.
Il tutto senza dimenticare l’indicazione per genovesi e “foresti”: “La ricetta è tratta dalla guida “Genova a Tavola”, M&R Comunicazione, disponibile presso gli IAT”.

Già, perché il nostro sindaco manager – veda un po’ lei – è uomo attento ai particolari, anche se dall’ultimo incidente toponomastico, con quella scelta divisiva fra partigiano e contractor, non si direbbe proprio. E a volte basterebbe soltanto la volontà di informars. Specie quando si proclama a destra e manca di non voler essere divisivi e si finisce coerentemente, o solo per moda, o solo perché tappa obbligata, per abbracciare commissioni anti-odio e cittadinanza onoraria a Liliana Segre.

Resta l’interrogativo inquietante sul futuro del nostro beneamato sindaco, uomo dei ponti. Uomo tutto d’un pezzo che scivola su una passerella. Mi piace concludere con un verso de “A cimma” del concittadino Fabrizio De Andre’. Dice: “Poi vegnan a pigiàtela i câmé/ te lascian tûttu ou fûmmu dou toêu mesté”. Eggia’ ti lasciano tutto il fumo del tuo mestiere. Forse un’incosapevole profezia. Per politici depasse’ che, magari presto, finiranno per reinventarsi chef sui social.

Sempre meglio disporre di un qualunque piano B. Questione di vision.

Giona

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