La Palermo degli anni ’70
“La società in Sicilia è mafiogena per il ruolo essenziale dell’illegalità e della violenza nei processi di accumulazione e formazione dei rapporti di dominio e subalternità…”
Umberto Santino, La strage di Portella, la democrazia bloccata e il doppio stato.
“…doppia mafia in doppio Stato: la mafia è insieme fuori e contro lo Stato, in quanto non riconosce il monopolio statale della forza; dentro e con lo Stato, perché una serie di attività implicano l’uso del denaro pubblico e il rapporto con i centri decisionali pubblici. La doppiezza dello Stato consiste nel suo essere formalmente contro la mafia, in quanto associazione criminale, ma nell’averla di fatto legittimata con l’impunità per il suo ruolo di compartecipe del sistema di potere e la funzionalità dei suoi delitti alla perpetuazione di quel sistema…”.
Discorso al Convegno internazionale
Venezia 11 – 13 ottobre 1996
Umberto Santino
Il dibattito sulle Regioni si riapre in Italia subito dopo la caduta del regime fascista e se non produce esiti tangibili per oltre vent’anni, ha effetto invece sulle autonomie locali differenziate costituite in alcune zone marginali del Paese.
Sicilia, Sardegna, Friuli, Trentino e Valle D’Aosta godevano di una certa autonomia economica e legislativa e per dirla in modo semplice in Sicilia arrivavano montagne di denaro da impiegare soprattutto nel settore del movimento terra e quindi nella speculazione edilizia. E le mafie, sempre attente ai cambiamenti della società, si adattarono all’evoluzione della struttura istituzionale, cercando di unificare i gruppi criminali siciliani con la costituzione di una “commissione centrale di Cosa Nostra dove confluirono le cosche di Palermo compreso il gruppo corleonese di Luciano Liggio. In questo periodo cominciarono anche le fortune del gruppo mafioso catanese che faceva capo a Nitto Santapaola.
Il fenomeno della centralizzazione della mafia palermitana è stato l’argomento principale delle inchieste giudiziarie degli anni Settanta-Ottanta, condotte da pool di magistrati, tra cui emersero per abilità e capacità anche Paolo Borsellino e Giovanni Falcone. Per facilitare la lettura dei fenomeni mafiosi di quel periodo si è forse un po’ ecceduto, soprattutto a livello dei media, nel considerare il fenomeno criminale siciliano come coordinato dalla “cupola” senza valutare che Cosa Nostra aveva anche gruppi importanti e autonomi a Caltanissetta, Trapani e Agrigento. Il fenomeno mafioso di quegli anni è complesso, fatto di segnali clamorosi ma anche di rituali più o meno nascosti, legati a crimini come il furto di bestiame che sembrano legati a un altro tempo.
Gli uomini di mafia imparavano nuovi sistemi per fare soldi, una montagna di soldi, ma soprattutto acquisivano le nuove regole dell’economia per investire i proventi di attività redditizie come il traffico di droga e la speculazione edilizia, senza però rinunciare al racket del pizzo, al contrabbando di sigarette e al controllo della prostituzione, attività indispensabili per monitorare il territorio. E mentre i capitali venivano veicolati su banche estere, entrando in contatto con la finanza internazionale e riciclati tramite le banche italiane, a livello locale continuavano le normali attività illecite ma anche legali, perché Cosa Nostra era soprattutto un’organizzazione basata su canali di solidarietà e gregariato criminale, coesa da antichi riti di appartenenza e profondamente radicata sul territorio.
Nella guerra dello Stato contro lo stato “altro” rappresentato da mafiosi, massoneria deviata, politici corrotti o che rappresentavano in Parlamento le famiglie mafiose, erano impegnati magistrati, forze dell’ordine e giornalisti che hanno pagato con la vita il loro impegno per sconfiggere la mafia.
Chi era Mauro De Mauro
Il giornalista de L’Ora di Palermo, Mauro De Mauro, era nato a Foggia nel 1921. Aveva un fratello di dieci anni più giovane, Tullio, diventato poi Ministro dell’Istruzione durante il secondo governo Amato nel biennio 2000-2001. In gioventù fu un convinto fascista e dopo l’8 settembre entrò a far parte della X Mas, il corpo militare di Junio Valerio Borghese che contava più di trentamila soldati. Fu arrestato a Milano nell’estate del 1945 e rinchiuso prima a Ghedi e poi nel campo di concentramento di Coltano dove ricevette il trattamento che in quegli anni veniva riservato a chi aveva aderito al progetto di Benito Mussolini. Il suo naso rotto e la sua fronte segnata da una lunga cicatrice erano i segni di un conto saldato con gli scarponi da montagna.
Scampato il pericolo della condanna come collaborazionista, si trasferì a Palermo con la famiglia e senza mai disconoscere il suo passato fascista cominciò a collaborare con alcuni quotidiani come “Il Tempo di Sicilia” e il “Mattino di Sicilia” per poi approdare a “L’Ora”, quotidiano della sera finanziato dal Partito Comunista e diventato un punto di riferimento per le sue battaglie contro la mafia palermitana.
Il Rapimento
Mauro De Mauro sparì sotto casa sua, in via delle Magnolie, alle 9 di sera dopo che, uscito dalla redazione del giornale, si era fermato a comprare le sigarette, il caffè e una bottiglia di bourbon. Arrivato davanti a casa con la sua BMW, venne visto dalla figlia Franca chiacchierare con tre uomini. Poi risalito improvvisamente sull’auto, non fece più ritorno. La BMW fu ritrovata dalla parte opposta della città con le chiavi inserite nel cruscotto. Era il segno inequivocabile della lupara bianca.
Il Golpe Borghese e la morte di Enrico Mattei
Furono due i fatti che gli inquirenti tennero in considerazione per spiegare la scomparsa di Mauro De Mauro: il golpe Borghese, tentato dal “principe nero” nel dicembre del 1970, e la morte di Enrico Mattei, nell’ottobre del 1962, esploso insieme al suo aereo decollato da Catania e con destinazione Milano.
Secondo le ricostruzioni dei magistrati, il Golpe di Junio Valerio Borghese, comandante della X Flottiglia Mas, scattò nella notte tra il 7 e l’8 dicembre 1970 con il nome in codice “Tora-Tora” ma fu fermato dallo stesso Borghese per motivi ancora oggi ignoti. I golpisti avrebbero dovuto simultaneamente assaltare il Quirinale, i Ministeri degli Interni e della Difesa, e la sede della RAI-TV, per poi prendere possesso delle Prefetture nel resto d’Italia. Cosa Nostra si sarebbe dovuta occupare della Sicilia e nello specifico i picciotti avrebbero dovuto occupare il Tribunale e la Prefettura di Palermo e altri bersagli strategici per paralizzare lo Stato. De Mauro, che aveva mantenuto stretti rapporti con diversi camerati, avrebbe scoperto la collaborazione tra il “principe nero”, così veniva soprannominato Borghese, e la mafia siciliana.
Fallito il golpe, l’inchiesta che ne seguì vide imputate 48 persone poi tutte prosciolte nel 1984.
Il tentativo di colpo di Stato, derubricato al tempo come “un’operazione grottesca di un manipolo di vegliardi”, fu definita anni dopo “tutt’altro che una baggianata” daTommaso Buscetta, che riferì di incontri tra vertici dello Stato e mafiosi della “cupola” che ambivano al totale controllo del Sud, o del principe Borghese a Roma con Maletti e Miceli, al tempo vertici del SID. Sembrerebbe che proprio dopo questi incontri a Roma sia stata decretata la condanna del giornalista e De Mauro fu rapito, interrogato e ucciso. Mandanti dell’omicidio i capi della “commissione”, o se preferite della “cupola”, Gaetano Badalamenti, Salvatore “Totò” Riina e Stefano Bontate.
I pentiti
Dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio cominciarono a parlare i pentiti. E Gaspare Mutolo, detto Asparinu, compagno di cella di Riina per otto mesi, fece due nomi: “De Mauro? Lo strangolarono Stefano Giaconia ed Emanuele D’Agostino”.
Poi fu il turno di Tommaso Buscetta, Antonino Calderone, Francesco Marino Mannoia, Gaetano Grado. E tutti indicarono la “pista nera”.
Ma decisiva fu la dichiarazione di Francesco Di Carlo che ricordando il summit Roma fra capimafia e militari spiegò che“De Mauro non fu nemmeno trascinato via a forza quella sera perché a prelevarlo c’era anche Emanuele D’Agostino, l’autista di Bontate”.
E De Mauro si fidava di D’Agostino e sperava di poter avere da lui il pezzo mancante della sua inchiesta che avrebbe completato lo scoop di cui parlava in redazione. Il giornalista fu portato in una casa isolata in campagna e Mimmo Teresi con Stefano Giaconia e Emanuele D’Agostino dopo averlo interrogato su quello che sapeva del colpo di stato lo uccisero e seppellirono il corpo nella zona di Villagrazia.
Il caso Mattei
Il rapimento di Mauro De Mauro […] è stato effettuato da Cosa Nostra. De Mauro stava indagando sulla morte di Mattei e aveva ottime fonti all’interno di Cosa Nostra. Stefano Bontade venne a sapere che De Mauro stava avvicinandosi troppo alla verità, e di conseguenza al ruolo che egli stesso aveva giocato nell’attentato, e organizzò il prelevamento del giornalista in via delle Magnolie. De Mauro fu rapito per ordine di Stefano Bontate che incaricò dell’operazione il suo vice Girolamo Teresi […]. Era stato spento un nostro nemico e si dette per scontato che Stefano Bontate, Gaetano Badalamenti e Luciano Liggio avessero autorizzato l’azione”.
“De Mauro era un cadavere che camminava. Cosa Nostra era stata costretta a perdonare il giornalista perché la sua morte avrebbe destato troppi sospetti, ma alla prima occasione utile avrebbe pagato anche per quello scoop. La sentenza di morte era solo stata temporaneamente sospesa”.
Tommaso Buscetta
Alle 18,40 del 27 ottobre 1962, il bireattore Morane-Saulnier 760 pilotato da Irnerio Bertuzzi, ex capitano pluridecorato dell’Aeronautica, comunica alla torre di controllo di Linate di essere in dirittura d’arrivo: è l’ultimo collegamento radio. L’aereo con a bordo Enrico Mattei esplode nel cielo sopra Bescapè, in provincia di Pavia. Mario Ronchi, un contadino del luogo che vide l’esplosione, disse: “Il cielo rosso bruciava come un grande falò, e le fiammelle scendevano tutt’attorno…”.
Possiamo dire con certezza che De Mauro aveva iniziato a interessarsi della vicenda nel settembre 1970 su richiesta del regista Francesco Rosi, che avrebbe poi presentato il suo film, “Il caso Mattei”. De Mauro aveva il compito di mettere in fila le ultime ore del presidente dell’Eni in Sicilia facendo domande alle persone che avevano incontrato Mattei in quei giorni così frenetici di incontri, strette di mano, discorsi convincenti e progressisti. Forse anche troppo per una terra ancora legata al solido potere latifondista garantito dagli uomini d’onore e difeso dalla politica collusa che a Roma arrivava con i voti della criminalità organizzata. Ma Mattei dava anche fastidio alle potenze straniere che vedevano nella sua figura un pericolo per il cartello del petrolio. Insomma, durante quella visita sul suolo siciliano si muovevano servizi segreti italiani, Cia, servizi deviati e clan mafiosi. Tutti intenti a far sì che gli equilibri generali rimanessero intatti.
Più volte, in redazione, il giornalista de L’Ora aveva confidato a qualche collega di avere per le mani uno scoop che “avrebbe fatto tremare l’Italia”. E le notizie per pubblicare il suo scoop probabilmente le stava raccogliendo e corredate di nomi, date e orari. Nomi come quelli di Vito Guarrasi e Graziano Verzotto e di tutti quelli che potevano essere al corrente dell’orario di decollo dell’aereo di Mattei, o che potevano aver visto il piano di volo e i relativi orari.
Vito Guarrasi, avvocato e braccio destro del presidente dell’Eni Eugenio Cefis, è il personaggio che i giornali chiamarono “Mister X”, al centro dell’inchiesta nata dopo la scomparsa di De Mauro, mentre Graziano Verzotto, uomo di spicco della Democrazia Cristiana, era in Sicilia a dirigere l’Ente Minerario Siciliano. Verzotto era anche in rapporti con Sindona e risultò dalle indagini essere amico del boss Di Cristina. E forse era proprio Verzotto la fonte di De Mauro e le informazioni veicolate al giornalista avevano il duplice scopo di far pressioni su Cefis e al tempo stesso di controllare l’andamento dell’inchiesta di De Mauro. Quando il giornalista si avvicinò troppo a scoprire la verità sull’attentato a Mattei, fu decretato il suo rapimento.
Nell’ottobre del 1970 fu disposta l’archiviazione dell’inchiesta per insufficienza di prove e probabilmente per ripetuti insabbiamenti da parte dei servizi segreti. Vito Guarrasi e Graziano Verzotto non entrarono mai in un’aula di tribunale e il collegamento tra il “Caso Mattei” e l’uccisione di Mauro De Mauro non fu mai dimostrato.
Il 4 giugno del 2015 il “capo dei capi” Totò Riina è assolto dalla Cassazione per non aver commesso il fatto. La sentenza riguarda il rapimento e l’uccisione di Mauro De Mauro. Francesco Di Carlo, il pentito che incolpò Riina di essere il mandante dell’omicidio, non venne ritenuto affidabile. Troppe versioni e molto confuse su come erano andati i fatti.
Alla base dell’assoluzione, ormai definitiva, ci sono oltre 2.200 pagine di motivazione compilate da Angelo Pellino, giudice a latere del processo di primo grado, depositate nell’agosto del 2012. De Mauro sarebbe stato rapito e assassinato perché “si era spinto troppo oltre nella sua ricerca della verità sulle ultime ore di Enrico Mattei in Sicilia”.
fp
Spirito libero con un pessimo carattere. Fotoreporter in teatro operativo, ho lavorato nella ex Jugoslavia, in Libano e nella Striscia di Gaza. Mi occupo di inchieste sulle mafie e di geopolitica.