Siamo a Swartkrans, un sito archeologico in Sud Africa, a poche decine di chilometri dalla capitale Johannesburg e nel bel mezzo della cosiddetta “culla dell’umanità”, la zona da cui la nostra specie si è mossa per colonizzare il pianeta: è qui che la scoperta di un gruppo di ricercatori dell’Università del Witwatersrand ha permesso di datare indietro nel tempo, fino a 1,6-1,8 milioni di anni fa, il primo tumore maligno in un ominide, un antenato del genere umano. Analizzando con tecnologie moderne i reperti fossili, i ricercatori hanno diagnosticato la presenza di un osteosarcoma maligno, un tumore dell’osso che aveva colpito il nostro antenato a livello del metatarso, nel piede, causandogli probabilmente gravi problemi nella deambulazione.
“Non riusciamo a stabilire con esattezza a quanti anni o per quale causa sia deceduto questo ominide, ma siamo certi che il tumore c’è e che risale a circa 1,7 milioni di anni fa”, confermano gli autori della ricerca pubblicata nel 2016 sul South African Journal of Science.
I tumori dunque esistevano addirittura in epoca preistorica, ma perché non ne abbiamo notizia? Un primo problema è legato a come la malattia veniva descritta nei testi antichi: Imhotep, medico dell’Antico Egitto vissuto attorno al 3600 a.C., descriveva quello che potrebbe essere un tumore al seno, ma data la mancanza di dati più precisi non possiamo essere certi che si trattasse proprio di cancro. Si deve aspettare la fine del XVIII secolo per leggere relazioni anatomicamente accurate di tumori maligni così come oggi li conosciamo.
Un secondo ostacolo all’identificazione di tumori antichi sta nel fatto che gli organi e i tessuti molli non si conservano e così molte informazioni vanno perse, a meno che non ci si trovi davanti a cadaveri mummificati. Proprio da alcune mummie vecchie di migliaia di anni ritrovate in Perù arrivano i segni di un possibile tumore nella parte superiore del braccio di una giovane donna.
Ma perché i casi di tumore antichi finora rinvenuti interessano prevalentemente le ossa? Le ossa sono le parti dell’organismo che ci arrivano conservate meglio, e inoltre i tumori ossei primari sono più comuni nei giovani, come doveva essere probabilmente la maggior parte dei nostri antenati al momento del decesso.
Sono tante le difficoltà che si incontrano quando si cerca di identificare un cancro in un reperto fossile, amplificate anche dal fatto che i frammenti disponibili sono spesso molto piccoli e che si sa poco o nulla sul “paziente”. Solo la tecnologia riesce a trovare risposta a molte delle domande dei “paleoncologi”: nel caso dell’osteosarcoma scoperto in Sud Africa, ad esempio, la diagnosi è stata possibile grazie all’utilizzo di una microtomografia computerizzata a raggi X in grado di generare immagini in due e in tre dimensioni del piccolo campione disponibile. Questa tecnica, unita al confronto con campioni moderni, ha permesso di scartare altre possibili diagnosi e di arrivare al risultato definitivo.
Prima della recente scoperta sudafricana, il più antico tumore maligno osservato in un fossile umano era un cancro presente nella mandibola di un esemplare di Homo ritrovato nel 1932 a Kanam, in Kenya, dal paleontologo britannico Louis Leakey. L’osso risale al Pleistocene e ha un’età di circa 1 milione di anni, ma ci sono ancora dubbi sulla datazione corretta, così come ci sono dubbi sul tipo di tumore presente, identificato dagli studi ogni volta come una neoplasia diversa: da osteosarcoma a linfoma di Burkitt a osteomielite traumatica.
Anche i fossili di altri animali contribuiscono a far luce sull’età del cancro: tra i più remoti, un caso di osteosarcoma benigno in un fossile di pesce di circa 300 milioni di anni, e diversi tumori benigni osservati anche nei dinosauri del Giurassico e in mammut di 23-24.000 anni fa.
Redazione del quotidiano digitale di libera informazione, cronaca e notizie in diretta