Vita in carcere in tempi di Coronavirus, fra rivolte e paura di perdere il lavoro

“Mi sono visto arrivare addosso un aspiratore di 60 Kg, che è atterrato a pochi centimetri dai miei piedi. Mi avesse colpito, mi avrebbe ucciso” racconta Nicola D’Amore della rivolta scoppiata l’11 marzo scorso nel carcere bolognese della Dozza. Nicola, agente di polizia penitenziaria e delegato del Sinappe, Sindacato nazionale autonomo di Polizia penitenziaria, ha fatto della questione carceraria il perno della sua attività: “Io ascolto tutti e se c’è qualcosa da denunciare, lo faccio. Non mi occupo solo delle condizioni di lavoro dei miei colleghi, perché il carcere è un problema di tutti” – spiega. Un’affermazione facile da verificare con una breve ricerca on line, che lo vede protagonista di numerose segnalazioni, che vanno dal cibo scaduto, alle condizioni detentive, alla mancanza di educatori.

“Quando ho appreso della rivolta – racconta – mi sono subito precipitato in istituto, perché c’era assolutamente bisogno di personale. I rivoltosi erano circa 400 e noi non avevamo neanche i mezzi adeguati per contrastarli. Avevamo caschi e scudi vecchi di trent’anni e neanche per tutti. Sono rimasto lì dalle 16 del pomeriggio fino alle 6.30 del mattino dopo. Gli agitatori hanno sfondato diversi segmenti del carcere per andare sul tetto e ci hanno lanciato di tutto. Chiedevano l’indulto, la libertà, la dignità, tutte richieste legittime, ma che non legittimano la violenza. Tant’è che molti altri detenuti non vi hanno partecipato e continuano a portare avanti le loro istanze”.

“Mai avrei pensato di trovarmi a vivere una situazione del genere – prosegue – nel 1986 la legge Gozzini ha introdotto delle premialità per i reclusi, rendendo il carcere un luogo molto più sicuro. Da allora, però, lo Stato ha abdicato al suo ruolo di guida. Non c’è stata una progettualità per coniugare educazione e sicurezza. A Bologna dovrebbero esserci 12 educatori in pianta stabile. Ce ne sono 5, che devono occuparsi di 200 detenuti definitivi a testa. Un lavoro impossibile. Anche la Torreggiani, la sentenza con la quale la Corte Europea per i Diritti Umani ha condannato l’Italia per trattamenti inumani e degradanti, dovuti al sovraffollamento nelle carceri, è arrivata per un’azione giudiziaria dei ristretti, non perché lo Stato ha raccolto le loro sofferenze. La risposta che è stata data alla sentenza è stata quella di aprire le celle per diverse ore al giorno e introdurre la sorveglianza dinamica, ovvero un controllo incentrato sulla conoscenza e sull’osservazione della persona. Questa apertura doveva, però, essere riempita di contenuti e andare di pari in passo con l’attività trattamentale. Invece  la maggior parte dei detenuti sono lasciati allo sbando e paradossalmente ha creato zone franche all’interno degli istituti”.

Su questo humus si è innestata la problematica generata dall’epidemia di Covid 19: da una parte la paura di essere contagiati, vivendo in uno spazio ristretto, dall’altra la chiusura che li ha tagliati fuori dal mondo esterno e dai legami famigliari, vissuta come un’aggravio di pena. Una disposizione che sembra non essere stata spiegata debitamente né tempestivamente accompagnata da misure che ne mitigassero gli effetti. “Noi non sappiamo come sia avvenuta la comunicazione dei provvedimenti presi per arginare la diffusione del coronavirus – spiega ancora Nicola – Ci sono stati degli incontri con i detenuti, ma non c’è nulla di scritto. Se la comunicazione è stata come quella che abbiamo avuto noi, possiamo dire che è stata quanto meno carente. Durante la rivolta io sono entrato in contatto con persone che poi sono risultate positive al virus. Dal momento che ho delle responsabilità verso la mia famiglia e verso i detenuti, sto chiedendo da giorni come mi devo comportare. Al momento l’unica risposta che ho ricevuto è stata quella di rivolgermi al mio medico. Per me questa non è una comunicazione efficace e se continua cosi, non so fra qualche giorno come gestiranno la situazione. Non solo fra i ristretti, ma anche fra i colleghi.”

Non è del tutto d’accordo Antonio, nome di fantasia di un detenuto nel carcere di Bollate, che ospita detenuti con pena definitiva e ha fatto delle attività trattamentali il suo segno distintivo. A Bollate non ci sono state proteste violente, ma anche lì la tensione è evidente. “La questione non è solo non poter vedere più i propri cari dall’oggi al domani, con la preoccupazione che succeda loro qualcosa – chiarisce Antonio – È più complessa. Chi ha ottenuto l’applicazione dell’articolo 21 dell’Ordinamento Penitenziario, che permette di uscire a lavorare, o chi godeva della semilibertà, ha saputo all’improvviso da un passaparola ufficioso che dal giorno successivo non sarebbe più uscito. La sera, rientrati, ci hanno fatto lo screening e il mattino dopo è arrivata la comunicazione ufficiale. Di colpo non ci siamo più presentati al lavoro e questo accadeva 15 giorni prima dell’emergenza nazionale. Otto di noi sono riusciti ad attivare lo smart working e continuano da dentro, ma molti hanno paura di perdere il lavoro. È già successo ad alcuni ragazzi che facevano riempimento scaffali in un supermercato Tigros attraverso una cooperativa”.

Perdere il lavoro in carcere è, se possibile, ancora peggio che perderlo fuori. Perché riporta la pena indietro di anni e rischia di compromettere il percorso di rieducazione ed esecuzione penale. Trovarne uno nuovo che permetta di riconquistare una libertà almeno parziale è, non c’è bisogno di dirlo, difficile.

A Bollate lavora circa il 35 percento della popolazione carceraria, non tutti in esterno. Lo stipendio medio viaggia intorno ai 700 euro (a seconda delle ore lavorate) e 112 euro costa ogni mese il mantenimento all’interno.

“Questa chiusura ci ha causato danni significativi, perché il decreto prevede che si possa uscire per comprovate esigenze lavorative – rincara Antonio – ma il nostro diritto al lavoro non viene garantito. Stiamo pagando per per una malformazione del sistema che non è in grado di tutelarci dal punto di vista sanitario. Capisco gli operai che vogliono stare a casa perché hanno paura di contagiarsi, ma partiamo da situazioni di base molto diverse: noi avevamo conquistato dei diritti, ora li abbiamo persi. E se non possiamo uscire a lavorare, chiediamo di essere messi nelle condizioni di farlo all’interno. Anche noi vogliamo fare la nostra parte in questo periodo di emergenza. Ci stiamo attivando per istituire un laboratorio di mascherine, come è stato fatto nel carcere di Massa. Saranno mascherine certificate dal Politecnico di Milano. Lancio un appello – conclude Antonio – stiamo cercando del tessuto tipo spunbond meltblown. Al momento ci serve solo per una campionatura. Poi, una volta ottenuta la certificazione, faremo l’ordine e pagheremo”.

Chiara Pracchi

 

Giornalista per passione, mi occupo soprattutto di mafie e di temi sociali. Ho collaborato con PeaceReporter, RadioPopolare, Narcomafie, Nuova Società e ilfattoquotidiano.it.
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