È cominciata con un volo di drone sui Parchi di Nervi la sperimentazione genovese del 5G, la rete mobile di quinta generazione che promette di cambiare il mondo. Le stime più recenti parlano di oltre 50 miliardi di prodotti connessi, dal frigorifero all’automobile, grazie a una maggiore velocità e a una minore latenza di questa tecnologia che ci consentirà ad esempio di uscire di casa senza controllare di aver chiuso il gas o spento tutte le luci.
Un giochino che ha portato alle casse dello Stato un’entrata sensazionale: 6,55 miliardi di euro è quanto hanno sborsato Tim, Vodafone, Wind Tre, Iliad e Fastweb per aggiudicarsi all’asta le bande di frequenza più ambite, i 700 megahertz (MHz), i 3,7 gigahertz (GHz) e quella dei 26 GHz, mai usata per le reti pubbliche.
La corsa alle frequenze preoccupa molti, scienziati compresi. Secondo l’OMS – l’Organizzazione Mondiale della Sanità – i campi elettromagnetici (CEM) di tutte le frequenze rappresentano uno degli inquinanti più comuni, destinato ad aumentare col procedere dello sviluppo tecnologico.
Dall’alta frequenza di smartphones, tablet, Bluetooth, punti di accesso Wi-Fi, fino alla bassa frequenza di cavi elettrici, lampade e comuni elettrodomestici, tutti in effetti siamo continuamente esposti ai CEM anche nelle nostre case. Un groviglio di elettromagnetismo che è passato dallo 0,0002 Volt per metro del 1940 ai 6 Volt per metro del tetto attualmente legalizzato in Italia, soglia che col 5G potrebbe toccare i 61 Volt per metro, come richiesto dagli operatori di telefonia mobile che si sono aggiudicati la famosa asta.
L’obiettivo dichiarato, infatti, è di arrivare entro il 2022 a fare in modo che nelle case di almeno l’80% della popolazione nazionale ci sia la copertura 5G. Si parla, secondo l’AGCOM, di garantire una densità di dispositivi connessi pari ad almeno 1 milione per km².
C’è un però: un segnale trasmesso a frequenze elevate come i 26 GHz è facilmente assorbito dai muri degli edifici e persino dagli alberi, ci sarà quindi un’enorme e inedita disseminazione di micro antenne, le “small cells”, piazzate praticamente a ogni angolo di strada. Un fatto che potrebbe costituire un rischio per la nostra salute.
E il richiamo alla prudenza arriva anche da un rapporto indipendente di ISDE, i Medici per l’Ambiente, pubblicato a settembre 2019 insieme all’associazione European Consumers, dove si sottolinea che “le onde millimetriche”, cioè i 26 GHz, “hanno effetti biologici specifici che sono stati studiati solo in parte” eppure “circa 4 milioni di residenti sono già stati esposti in Italia alla cosiddetta sperimentazione 5G con densità espositive e frequenze sino ad ora inesplorate su così ampia scala, senza che questa sperimentazione fosse preceduta da adeguata informazione, da procedure di consenso, da analisi di rischio ambientale e sanitario, e senza il coinvolgimento degli organismi istituzionalmente deputati alla tutela di ambiente e salute (ISPRA, ARPA, Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, Ministero della Salute, Istituto Superiore di Sanità)”.
Ma quali sono gli effetti biologici delle onde elettromagnetiche?
“Il nostro studio conferma e rafforza i risultati del National Toxicologic Program americano. Non può infatti essere dovuta al caso l’osservazione di un aumento dello stesso tipo di tumori, peraltro rari, a migliaia di chilometri di distanza, in ratti dello stesso ceppo trattati con le stesse radiofrequenze. Sulla base dei risultati comuni, riteniamo che l’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro (IARC) debba rivedere la classificazione delle radiofrequenze, finora ritenute possibili cancerogeni, per definirle probabili cancerogeni”.
A parlare è Fiorella Belpoggi, Direttrice dell’Area Ricerca dell’Istituto Ramazzini che ha condotto uno studio sui ratti Sprague-Dawley esposti ogni giorno, dalla vita prenatale alla morte spontanea, per 19 ore a campi elettromagnetici a radiofrequenza. “L’intensità delle emissioni utilizzate per lo studio è dell’ordine di grandezza di quella delle esposizioni ambientali più comuni in Italia” ed è servita “per mimare l’esposizione umana full-body generata dai ripetitori”, continua Belpoggi che poi precisa come i ricercatori dell’Istituto Ramazzini abbiano riscontrato aumenti statisticamente significativi nell’incidenza degli schwannomi maligni, tumori rari delle cellule nervose del cuore, e dei gliomi maligni, tumori rari del cervello.
“È molto importante sottolineare il fatto che gli studi epidemiologici hanno trovato lo stesso tipo di tumori delle cellule di Schwann, le cellule di rivestimento dei nervi, nei forti utilizzatori di telefoni cellulari”, avverte Belpoggi che conclude: “Sebbene l’evidenza sia quella di un agente cancerogeno di bassa potenza, il numero di esposti è di miliardi di persone e quindi si tratta di un enorme problema di salute pubblica, dato che molte migliaia potrebbero essere le persone suscettibili a danni biologici da radiofrequenze”.
A dimostrare quanta sia l’incertezza scientifica intorno ai campi elettromagnetici arrivano le dichiarazioni di Alessandro Vittorio Polichetti, Primo Ricercatore e titolare del progetto Salute e Campi Elettromagnetici promosso dal Ministero Superiore della Sanità (ISS), che ha ridimensionato lo studio del Ramazzini affermando: “Qualsiasi studio, per quanto sia valido e importante, va sempre visto nel contesto di tutte le altre ricerche per vedere se ci sono delle coerenze con gli altri studi e se i risultati sono consistenti o meno. Presi da soli non hanno alcuna valenza nel dire che ci sono degli effetti dei campi elettromagnetici”.
Fa male. Non fa male.
Neppure gli esperti riescono ad andare d’accordo. Certo è che “se il 5G fosse un nuovo farmaco da mettere in commercio – scrive il presidente di ISDE Italia, Agostino Di Ciaula -, avrebbe dovuto seguire un complesso iter di valutazione, necessario alla luce dell’ancor vado principio primum non nuocere, che dura in media un decennio. Certo, il 5G non è un farmaco, anche se qualcuno ha deciso per noi che migliorerà la nostra vita”.
Come siamo messi in Italia con i limiti di legge?
“Non c’è una base scientifica per definire un valore al di sopra del quale non siamo tutelati dagli effetti a lungo termine che ancora non conosciamo – commenta ancora Alessandro Vittorio Polichetti dell’ISS -. Il valore di campo elettrico di 6 Volt per metro, il tetto fissato in Italia, era un valore che poteva essere accettabile dal punto di vista tecnico, perché non dava problemi alle installazioni dell’epoca. È stata una decisione presa non su basi scientifiche ma essenzialmente politica”.
La regolamentazione dei limiti di radiofrequenza compatibili con la salute umana in Italia non ha seguito l’evoluzione della tecnologica e sostanzialmente è ancora ferma alla Legge quadro n.36 del 2001 – “Legge quadro sulla protezione dalle esposizioni a campi elettrici ed elettromagnetici” – e al successivo Decreto attuativo del 2003.
In parole povere: i limiti di legge che dovrebbero tutelarci dai CEM sono rivolti a mitigare solo gli effetti termici in seguito a esposizioni acute e non tengono in considerazione le più recenti evidenze scientifiche sugli effetti biologici, cioè la capacità di indurre modificazioni biologiche negli organismi viventi in seguito ad esposizioni croniche.
Di più. Le violazioni delle prescrizioni non rientrano tra le fattispecie di reato previste dal Testo Unico dell’Ambiente ma sono sanzionate esclusivamente in via amministrativa, così l’articolo 15 della Legge quadro: “Salvo che il fatto costituisca reato, chiunque nell’esercizio o nell’impiego di una sorgente o di un impianto che genera campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici superi i limiti di esposizione e i valori di attenzione di cui ai decreti, è punito con la sanzione amministrativa da euro 1.032 a euro 309.874”.
All’assenza di una disciplina che sanzioni penalmente l’elettrosmog, ha rimediato la giurisprudenza riconducendolo alla contravvenzione prevista dalla prima parte dell’articolo 674 del Codice Penale, il “getto pericoloso di cose”. La pena in questo caso è l’arresto fino a un mese o l’ammenda fino a 206 euro.
Cosa abbiamo capito noi
In Italia la sperimentazione 5G è stata avviata in maniera incautamente precoce, senza che le Pubbliche Amministrazioni, a tutti i livelli, avessero ben chiaro il significato del principio di precauzione, e ignorando i rischi. Probabilmente, per dare un minimo di tutela alla salute pubblica, sarebbe stato sufficiente sottoporre a Valutazione Ambientale Strategica (VAS) tutto il programma di sviluppo della rete 5G, prima di dare il via ai test.
La nostra responsabilità e il nostro pensiero dovevano andare alle nuove generazioni per evitare di trasformare il brodo digitale nel prossimo amianto, una minaccia conosciuta e trascurata per decenni.
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Sono una giornalista con il pallino dell’ambiente e mi piace pensare che l’informazione onesta possa risvegliarci da questa anestesia collettiva che permette a mafiosi e faccendieri di arricchirsi sulle spalle del territorio e della salute dei cittadini.
Il mio impegno nel giornalismo d’inchiesta mi è valso il “Premio Cronista 2023” del Gruppo Cronisti Liguri-FNSI per un mio articolo sul crollo di Ponte Morandi. Sono co-autrice di diversi reportage tra cui il docu “DigaVox” sull’edilizia sociale a Genova; il cortometraggio “Un altro mondo è possibile” sul sindaco di Riace, Mimmo Lucano; “Terra a perdere”, un’inchiesta sui poligoni NATO in Sardegna.