Appena pubblicato sui social, nel pieno dell’esplosione della pandemia, il famoso video di TG Leonardo che nel 2015 aveva parlato di un super-virus polmonare creato in laboratorio da scienziati cinesi, aveva scatenato alcune ricostruzioni “complottistiche” subito accantonate anche perché, e questo va sottolineato all’istante, il virus del servizio di RAI3 non c’entrava nulla con il SARS-CoV-2, quello che causa la Covid-19.
Eppure oggi, l’ipotesi che un virus sia sfuggito per errore dal Wuhan Institute of Virology torna in prima pagina con un lungo articolo del Washington Post che denuncia come nel 2018, due anni prima che l’emergenza sanitaria facesse a pezzi il mondo, due dispacci del Dipartimento di Stato avessero avvertito che c’erano dei problemi di sicurezza in un laboratorio di Wuhan che stava conducendo studi rischiosi sui pipistrelli. Gli ammonimenti arrivavano dai funzionari dell’Ambasciata americana in Cina che, tra gennaio e marzo 2018, “avevano fatto il passo insolito di inviare ripetutamente diplomatici scientifici statunitensi al Wuhan Institute of Virology (WIV), che nel 2015 era stato il primo laboratorio cinese ad avere una cabina di alta sicurezza di livello BSL4“.
Lo scrive il Post nella sua ricostruzione che poi continua spiegando come “i ricercatori cinesi della WIV stavano ricevendo assistenza dal Galveston National Laboratory della University of Texas Medical Branch ma i dispacci sostenevano che gli USA avrebbero dovuto fornire ulteriore supporto al laboratorio di Wuhan perché la sua ricerca sui coronavirus dei pipistrelli era importante ma anche pericolosa”.
Secondo il Post, durante le interazioni con gli scienziati del laboratorio, la delegazione USA avrebbe “notato che i tecnici non erano adeguatamente formati per operare in sicurezza in questo laboratorio (BSL4) ad alto contenimento”.
Non solo. Nel 2018, conferma ancora il Post, la delegazione aveva incontrato il capo del progetto di ricerca, Shi Zhengli, lo stesso che nel 2017 aveva pubblicato uno studio che mostrava che i pipistrelli cosiddetti “naso a ferro di cavallo”, raccolti in una grotta della provincia dello Yunnan, erano probabilmente della stessa popolazione di pipistrelli che avevano generato l’epidemia di SARS nel 2003.
“Soprattutto – e questo è scritto sul dispaccio della delegazione USA in mano al Post – i ricercatori hanno dimostrato che vari coronavirus simili alla SARS possono interagire con la proteina ACE2, il recettore umano identificato per il coronavirus della SARS”. ACE2 è lo stesso recettore delle vie aeree superiori cui si aggancia il Covid-19, ad esempio.
E in effetti il progetto di ricerca era nato proprio per prevenire l’insorgenza di un’epidemia simile alla SARS, e prevedeva lo studio di virus potenziati in laboratorio che avrebbero permesso di comprendere i meccanismi di attacco all’uomo. All’epoca furono in tanti a chiedersi se il team di Shi si stesse assumendo dei rischi inutili e alla fine, nel 2014, il Governo Usa impose una moratoria sul finanziamento di qualsiasi ricerca che rendesse un virus più mortale e contagioso. Ma questo non fermò gli scienziati cinesi.
E dunque?
La conclusione la suggerisce Xiao Quiang, un ricercatore della School of Information dell’Università della California, a Berkley, intervistato dal Post: “Come molti hanno sottolineato, non ci sono prove che il virus che ora affligge il mondo sia stato progettato in laboratorio, e gli scienziati concordano ampiamente sul fatto che provenga dagli animali. Ma ciò non equivale a dire che non è venuto da quel laboratorio che ha passato anni a testare i coronavirus dei pipistrelli innestati in altri animali”.
Ai dubbi sollevati dal Washington Post si aggiungono le dichiarazioni del Capo di Stato Maggiore americano Mark Milley che ieri, in un incontro con la stampa, ha lasciato aperta l’ipotesi dell’incidente in laboratorio, uno scenario che in precedenza era stato escluso dal responsabile sanitario del Pentagono, il generale Paul Freidrichs.
Per far luce sul “romanzo Coronavirus”, rivela oggi un servizio della CNN, ora indaga l’intelligence USA.
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Leggi QUI l’articolo originale del Washington Post
Sono una giornalista con il pallino dell’ambiente e mi piace pensare che l’informazione onesta possa risvegliarci da questa anestesia collettiva che permette a mafiosi e faccendieri di arricchirsi sulle spalle del territorio e della salute dei cittadini.
Il mio impegno nel giornalismo d’inchiesta mi è valso il “Premio Cronista 2023” del Gruppo Cronisti Liguri-FNSI per un mio articolo sul crollo di Ponte Morandi. Sono co-autrice di diversi reportage tra cui il docu “DigaVox” sull’edilizia sociale a Genova; il cortometraggio “Un altro mondo è possibile” sul sindaco di Riace, Mimmo Lucano; “Terra a perdere”, un’inchiesta sui poligoni NATO in Sardegna.