Come accade sempre, per capire l’oggi bisogna tornare indietro nel tempo. È passato circa un secolo dalla stesura del saggio “La politica come professione” di Max Weber, sociologo filosofo, ma anche economista tedesco, che ha tracciato un solco così profondo nello studio della sociologia politica che, ancora oggi, se parliamo dello Stato come “un’entità che reclama il monopolio sull’uso legittimo della forza fisica”, in questo solco ci finiamo mani e piedi. Sulla scorta dell’opera di Max Weber, a una lettura anche non attenta, quello che emerge sono le tre qualità che l’uomo politico deve avere: la passione, il senso di responsabilità e la lungimiranza.
La passione è destinata a una causa, perché è la scintilla dell’azione politica che innesca quel senso di necessaria responsabilità nella ricerca delle azioni più idonee al raggiungimento di un risultato. La lungimiranza è la capacità di agire e decidere in base alla realtà che ci circonda. In sintesi, la lungimiranza è l’attitudine a vedere cosa è meglio fare traguardando il futuro attraverso l’immediata realtà. Partendo da questi tre assunti, la carriera politica avviene attraverso due vie principali, dall’alto o dal basso. Dal basso si sviluppa attraverso una più o meno lunga esperienza di militanza che si “arricchisce” di contenuti man mano che si procede nell’acquisizione di responsabilità e quindi di poteri. È la classica carriera politica intesa appunto, come nel pensiero classico di Max Weber, e che abbiamo avuto anche in Italia fino al 1994.
Poi c’è la “discesa” in politica, che non è più professione ma missione, e si verifica quando si fanno valere competenze, ma soprattutto virtù, maturate in altre sfere della vita. La lecita aspirazione al ruolo politico è esterna alla politica come professione e si pone spesso come opposizione al concetto weberiano, o se preferite classico, della politica che viene raccontata come produttrice di compromessi e di corruzione. Il ruolo della discesa in campo assume quindi, altri significati, e utilizza altre parole. Nasce la figura del “salvatore” e della sua missione redentrice, viene veicolato il messaggio di un uomo illuminato che “da lassù” scende tra noi per sacrificarsi a vantaggio degli infelici che “sono quaggiù”.
Cambia il messaggio, cambia il linguaggio, e possiamo certamente parlare di “teologia politica”, come spiega Giuliana Parotto in un suo libro su Silvio Berlusconi. Ma succede sempre così nella storia dell’uomo quando si verificano irruzioni di benefattori che si dedicano, “obtorto collo”, in compiti provvidenziali.
“I Re nascosti”, i “falsi Demetrio” o gli “unti dal Signore”, alcuni “unti dalla testa ai piedi”, rispondono a questa “chiamata” attraverso l”utilizzo di stereotipi semplici da comprendere come il bene dell’umanità, le radici, le tradizioni, la libertà, l’appartenenza, il sangue, la famiglia, la religione, la sicurezza. Stereotipi che hanno anche validazione nel processo democratico con l’esercizio elettorale. E proprio in ambito elettorale, quando la comunicazione politica diventa strumento di persuasione, “l’idea provvidenziale” lanciata “dal salvatore di turno” si presenta come occasione di riscatto o di perdizione. Viene trasmesso il concetto di partecipazione elettorale come momento imperdibile per mutare il corso delle vite. E va oltre la semplice presenza del politico in voga al momento, “che intanto sappiamo che le promesse in campagna elettorale non contano”, ma ha occupato anche un piano superiore di pensiero con l’attesa nomina di un Papa straniero, portatore di cambiamento in meglio, o di un Presidente afro americano a capo della maggiore potenza mondiale.
Gli uomini salvifici non fanno un ingresso in politica, ma scendono in politica. Lo stesso concetto con cui, oggi, alcuni uomini di potere postano foto dal balcone o chiedono agli elettori di avere “fede” perché la fiducia si basa su concetti concreti mentre la fede poggia su dogmi. Quindi si scende in politica, e quando ci si è già e magari con poteri decisionali, si propone un cambiamento, un’avventura nuova di zecca. Tutto ciò che è vecchio sa di corruzione, e scendere dall’alto, luogo dove storicamente c’è virtù, luce e purezza, offre quella garanzia che non può offrire chi arriva dalla putredine del “basso” .
Oggi il balcone da cui si arringa la folla sono i social, dove si raccontano cose mirabolanti con un linguaggio così semplicistico diretto e lineare da non prevedere neppure l’innesco di quella scintilla che mette in moto il ragionamento. Un flusso continuo di concetti ripetuti fino all’ossessione e che quotidianamente fanno scattare gli applausi e i ringraziamenti di chi, dal basso, non capisce che chi è in alto fa solo quello che è suo dovere fare. E spesso lo fa pure male.
fp
Spirito libero con un pessimo carattere. Fotoreporter in teatro operativo, ho lavorato nella ex Jugoslavia, in Libano e nella Striscia di Gaza. Mi occupo di inchieste sulle mafie e di geopolitica.