Informazione e social: quando il giornalismo fa male a sè stesso

Informazione e internet: ignorare un qualsiasi argomento in maniera totale o parziale, non è un handicap per poterne discutere con convinzione sui social

Facebook è nato nel 2004 come piattaforma social per trovare e restare in contatto con i propri amici, colleghi e vecchi compagni di scuola. Il sottopensiero è che il buon Mark Zuckenberg fosse così sfigato da aver studiato la piattaforma Facebook, su cui oggi ci sono più di un miliardo di persone, per azzerare in un certo senso la distanza tra lui e le belle ragazze del college che nella vita reale non se lo sarebbero filato. Insomma, un genio voyeur che è riuscito a guardare nella vita (e nel reggiseno) delle belle ragazze senza doversi arrampicare fino a una finestra ma semplicemente facendo leva sulla loro infinita vanità.

L’ego smisurato

Non saprei dire se dal punto di vista squisitamente godereccio il progetto per Zuckerberg abbia funzionato a dovere, ma di certo ha alimentato la spavalderia e l’ego di moltissime persone che fino al quel giorno erano note solo al barista sotto casa. E quando un media diventa popolare, una certa informazione e la politica ne diventano un motore straordinario. Il segnale di affermazione di uno strumento che arriva con la classica frase “l’ho visto su Facebook”.
Un tempo era “me lo ha detto il prete” o il Sindaco, o il Carabiniere del paese, poi la radio, poi la Tv. Internet e Facebook hanno messo ordine nel flusso delle informazioni e ridisegnato il ruolo delle fonti primarie.

Scendere ancora più in basso si può

Ma il meccanismo, straordinario, dei social media è stato quello di aver abbassato effettivamente l’asticella sul livello della comunicazione e del ragionamento. Per dirla in maniera chiara: ignorare un qualsiasi argomento in maniera totale o parziale, non è un handicap per poterne discutere con convinzione sui social. E le molteplici discussioni e relative verità vanno di pari passo con la preparazione di chi ne parla. L’utente medio di una piattaforma social commenta qualsiasi notizia, a prescindere dal fatto che la conosca.

Il limite fisico di lettura, nella maggioranza dei casi, è il titolo

Se il titolo sembra inverosimile secondo il bagaglio delle proprie conoscenze, o in base al livello di noia o di stanchezza, il commento più probabile è “fake news” che, se postato sotto a un articolo di una testata giornalistica può anche valere la querela.

È evidente come diventi semplice per un politico utilizzare questo strumento per cercare consensi “tout court”, senza fare tanta fatica.  E così è capitato che per i like facili Salvini nel ruolo di Ministro dell’Interno abbia svelato in un post un’operazione anti-mafia ancora in corso, o che Giuseppe Conte abbia annunciato in anticipo e con un tweet la liberazione di Silvia Romano. Lo stesso vale per quell’informazione che ha preferito una titolazione efficace a un testo esaustivo, o una notizia “semplice o semplificata” piuttosto che l’approfondimento. Il dover per forza arrivare a più persone possibile per rendere commercialmente efficaci i propri clic, ha sacrificato il ruolo di chi fa informazione e le conseguenze si vedranno presto.

Le Monde

 

 

 

 

 

Questa premessa è per dire che la tecnologia può portare vantaggi enormi o regressioni tragiche. Per molti internet è la morte dei giornali cartacei.
Per il direttore di Le Monde, Luc Bronner non è così.
In un tweet del 20 gennaio di quest’anno scrive che il quotidiano francese ha ridotto del 14% il numero degli articoli e aumentato i giornalisti in modo da poter fare più inchieste. E sembra che la strategia funzioni.
La decisione controcorrente di Luc Bronner apre un altro capitolo relativo a internet che, visto come punto di arrivo, è in realtà uno dei tanti mezzi possibili di comunicazione.
E il mondo virtuale evocato con l’avvento di internet è in realtà meno virtuale dei tanti mezzi culturali a cui siamo ormai abituati, come la letteratura o il cinema.
Nei primi anni del ‘900 il cinema e in minor parte la fotografia, avevano suscitato interesse in alcuni psicologi, come Edoardo Gemelli, che in un suo articolo del 1928 sul “Journal de psychologie normale et pathologique” scrisse della sua esperienza nell’entrare in una sala cinematografica col proposito deliberato di resistere al fascino esercitato dalla proiezione e di conservare il controllo su sé stesso e sul suo potere di critica. Sconfitto nel suo intento assimilò, poi, tale esperienza ai comportamenti dell’esperienza onirica, in tutta la sua fantastica nitidezza e contraddizione.

Dalla società del possesso alla società dell’accesso

Internet rappresenta una delle tante evoluzioni dell’uomo nei millenni, dal treno, all’auto, alla sfida spaziale. Questa è l’epoca del cyberspazio, e per citare Rifkin, stiamo passando dalla società del possesso alla società dell’accesso. Nel mondo globale di internet e quindi dei social media, il pericolo viene dall’abbandono della sequenzialità dei processi mentali così come li abbiamo concepiti fino ad ora. Dallo stato di non conoscenza si passa all’apprendimento per raggiungere lo stato di conoscenza.
Distanziarsi da questo processo, su Internet diventa pericolosissimo perché se non esistono conoscenze e memorie condivise si entra in una babele mentale che crea solo conflitti.

Mark Zuckerberg

 

 

 

 

 

 

 

Mark Zuckerberg nel 2017 ha dichiarato che la missione di Facebook sarebbe stata quella di migliorare il mondo, liberando la sua creatura dalla propaganda terroristica, dal cyber bullismo, dalle fake news e dal populismo. Ha usato 6.000 parole per promettere che Fb sarebbe diventato più sicuro, più informato, più solidale. Ma all’inizio del 2018 Zucherberg, in un altro comunicato annunciava un cambiamento nel news feed, dando priorità e visibilità ai contenuti di amici e parenti piuttosto che ai contenuti pubblicati dai media.

E le fake-news?

Priorità a quelle considerate di qualità dagli utenti. Quegli stessi utenti che al bar durante la partita a biliardo erano commissari tecnici di calcio, e oggi, davanti a un monitor, sono virologi, strutturisti, idraulici, medici, giornalisti.
Insomma, Facebook affida il controllo delle fake news a chi spesso le fabbrica, magari inconsapevolmente.

Adam Mosseri

Adam Mosseri, oggi CEO di Instagram e nel 2018 responsabile news feed di Facebook diceva: “Le persone vogliono più notizie locali, faremo in modo di rendere più semplice per i nostri utenti accedere a queste notizie in una sezione dedicata”.
Sempre a gennaio 2018 Zucherberg sottolineava: “L’anno scorso abbiamo lavorato per ridurre le fake news, quest’anno sarà data priorità a notizie da testate che la comunità considera affidabili”.

Poi però, solo un anno dopo, lo stesso Zucherberg si è accorto che non era possibile trovare un sistema efficace contro le balle virtuali e si è arreso. Nel modo più banale possibile: Facebook è tornato ad essere un prodotto di mercato dopo aver utilizzato la morale ad uso di business.

E l’informazione?

Per certo Facebook non è il luogo più adatto per farla, perché l’informazione costa tempo e fatica e quindi denaro. Gli standard di attenzione su Facebook raggiungono i requisiti minimi per pensare di fare buon giornalismo. Certo può essere un modo per veicolare il proprio giornale ma portando i lettori sul proprio spazio web. Facebook è una scatola vuota che noi riempiamo di contenuti e vive sui nostri contributi multimediali. I “mi piace” sono un’arma di distrazione micidiale perché creano fidelizzazioni non sui contenuti ma sulla fiducia. “I like” costano poca fatica a chi li mette, e spesso neanche sa perché.
Oggi fare impresa è complicato, nel campo dell’editoria anche più che in altri settori. Sarebbe arrivato il momento di usare Facebook e smettere di essere usati. Anche perché in poco più di 15 anni si è riusciti a trasformare quelle che si chiamavano “notizie brevi” in notizie, solo per assecondare il pubblico distratto di un social media. La politica continuerà a fare le sue dirette a tu per tu con le rispettive “tifoserie” finché qualcuno non si chiederà che fine hanno fatto quei noiosi ma istruttivi confronti nelle tribune elettorali dove i politici non potevano scappare dalle domande di giornalisti, spesso, preparati. Chi amministrava era costretto a studiare almeno un po’ per evitare di dire scemenze. Oggi in interminabili dirette social senza contraddittorio, si vedono scie di like, cuoricini, e commenti encomiastici o sconclusionati di chi neanche ascolta quello che viene detto.

fp

Fabio Palli

Spirito libero con un pessimo carattere. Fotoreporter in teatro operativo, ho lavorato nella ex Jugoslavia, in Libano e nella Striscia di Gaza. Mi occupo di inchieste sulle mafie e di geopolitica.