Durante la Grande Guerra le malattie psichiatriche colpirono incessantemente molti soldati dell’Esercito Italiano, in particolare nella fascia d’età dai 18 ai 40 anni. Diffusi gli episodi di psicosi alcolica, di esaltazione nell’uso improprio dell’arma d’ordinanza, di atteggiamenti violenti contro se stessi e gli altri. I medici militari non avevano mai assistito agli esiti di queste patologie derivanti dallo stress accumulato passando giornate accanto ai compagni morti, a escrementi e topi che divoravano i cadaveri: isterismo, mutismo, paranoia, demenza precoce e alcolismo cronico. Tremori diffusi in tutto il corpo, stati confusionali, perdita di memoria, frammentazione dello stato di coscienza. Lentamente, fin dall’inizio della Grande Guerra, la diffusione di malattie psichiche divenne un problema di dimensioni strategiche per la sua alta diffusione tra le fila di tutti i battaglioni e di tutte le armate. Tanto che molto presto i medici degli ospedali militari vennero chiamati dai vertici militari a rendere conto di questo fenomeno che per la prima volta intralciava le operazioni.
I sanitari furono del tutto impreparati, perché la malattia mentale in Italia, nel 1915, era vista come una patologia prettamente organica e frutto di predisposizione nel singolo individuo, non come uno stato che potesse essere indotto da situazioni esterne. Per tutto il conflitto la medicina sostenne che la guerra non poteva in alcun caso provocare pazzia, ma che ad ammalarsi erano esclusivamente i deboli ed i predisposti, i “tarati”.
In Italia questo fenomeno, durante il primo conflitto mondiale, è quantificabile in ben 40.000 casi, benché solo di recente siano stati fatti degli studi storici su queste patologie che per lungo tempo crearono agli stati maggiori delle forze armate notevole imbarazzo. Soprattutto perché, constatata la malattia, si poneva stringente l’obbligo, in ogni caso, di dare una valutazione sulla dipendenza dell’insorgenza della patologia dall’attività svolta quali soldati, e poi su un riconoscimento economico – pensionistico. Si assistette spesso ad un rimbalzo di pareri fra vari ospedali militari. «Camere di isolamento delimitate da pesanti sbarre d’acciaio, corpetti di forza, bende per cingere i polsi del malato a letto per ore, ed una vigilanza infermieristica che a dispetto della mancanza dei cosiddetti punti panottici vi suppliva con un’ancora maggiore invadenza, aggressività e severità» scrissero in un loro studio del 2008 sul tema Silvia Manente e Andrea Scartabellati.
Già durante la Guerra di Libia, in un contesto ben differente, i medici militari italiani cercarono di studiare fra le truppe questi fenomeni psichici, ma solo nel 1915 venne istituito un Servizio Sanitario Psichiatrico a Reggio Emilia. Qui, nella sezione Lombroso, vennero accolti migliaia di pazienti che spesso non parlavano neanche italiano ma solo i dialetti di origine. Questo mise in ulteriore crisi il personale sanitario. I comandi supremi vollero che coloro che si sottraevano alla guerra, simulando di essere pazzi, fossero incriminati quali disertori.
Ipnosi, elettrochoc, digiuni forzati, queste furono le azioni che il personale medico, fino ad allora totalmente privo di esperienza in materia, mise in atto nei confronti di questi malati. Il medico, sollecitato tramite circolari dai comandi militari, divenne un vero e proprio inquisitore, pronto a mettere alla prova anche con i mezzi più crudeli il militare ricoverato per verificare che non simulasse la pazzia. Tramite la guerra lentamente si aprì la strada clinica della psichiatria.
Nel Manicomio di San Lazzaro, a Reggio Emilia, sono custoditi migliaia di documenti e cartelle cliniche dove spesso la dicitura riporta “Non dimostrata pazzia”, di fatto una condanna del soldato. In questo caso infatti il militare veniva consegnato alla polizia militare e tradotto in un carcere militare per essere fucilato.
Per le diagnosi che parlano di isteria poi, si apre un momento epocale perché tale patologia era stata fino ad allora riconosciuta solo per la donna. Mai l’uomo virile era stato etichettato come isterico. Si aprì un nuovo modo di concepire la malattia mentale per un male che già nella sua etimologia era sempre stato considerato femminile (dal greco Hysteron, utero). Da qui a una femminilizzazione del male il passo fu breve: molti di questi malati vennero etichettati come portatori di omosessualità e fatti oggetto di attività correttive mediante l’uso di scariche elettriche nelle gambe per sollecitare il movimento in chi si rifiutava di deambulare e nella gola con chi non rispondeva alle domande o lo faceva in modo incomprensibile. La stessa sanità militare entrò presto in crisi e per fronteggiare il carico di lavoro negli ospedali fu necessario coinvolgere anche gli studenti di medicina.
Nelle trincee l’incoraggiamento a bere alcolici era diffusissimo: un modo per vincere la paura, soprattutto durante gli assalti frontali contro le mitragliatrici nemiche. La voce delle cartelle cliniche di questi militari parla quasi sempre di psicosi maniaco depressiva, sorprendentemente, in casi di giovanissimi, diagnosi di demenza senile. Molti di loro, ricoverati in ospedali militari, rivivevano nelle corsie gli eventi della guerra. Alcuni si rifiutavano di uscire, nascondendosi sotto le brande e rivivendo i traumi della trincea.
L’appellativo di “scemi di guerra” ebbe anche un senso denigratorio sull’opinione pubblica nei confronti di questi soldati in una società come quella italiana, organizzata all’epoca con la leva obbligatoria. Il rifiuto di continuare a combattere venne molto sovente visto come un atto di mancanza di coraggio, a volte di simulazione per sottrarsi alla dura vita del fronte. Molti di loro furono passati per le armi.
Anche il fenomeno della simulazione di pazzia fu in certa misura presente, e i medici militari furono sempre in difficoltà fra l’aspetto umano della loro professione, che di fronte alle tragedie vissute da questi uomini non poteva rimanere indifferente, e il giuramento di fedeltà fatto all’ Esercito Italiano.
Accanto a questi, furono frequentissimi gli episodi di autolesionismo per sottrarsi al fronte, procurandosi infezioni, o usando chiodi per aprire ferite da curare. Un dramma nel dramma, quello dell’autolesionismo. Una tragedia epocale, la Grande Guerra che solo in Italia costò la vita a seicentomila uomini, oltre a circa un milione di feriti, quasi sempre con lesioni invalidanti. Va detto che la “follia di guerra” colpì pesantemente, durante quel periodo, anche le donne: donne che a volte dovevano affrontare la vedovanza, la perdita di un figlio, a volte tutte e due le condizioni. Spesso, come nel caso delle vicende di Caporetto, di fronte all’invasione dell’esercito austro ungarico e di quello tedesco, dovettero fuggire dal Friuli e dal Veneto sopportando condizioni di vita durissime che misero alla prova la loro resistenza mentale.
Mauro Salucci
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Mauro Salucci è nato a Genova. Laureato in Filosofia, sposato e padre di due figli. Apprezzato cultore di storia, collabora con diverse riviste e periodici. Inoltre è anche apprezzato conferenziere. Ha partecipato a diverse trasmissioni televisive di carattere storico. Annovera la pubblicazione di “Taccuino su Genova” (2016) e“Madre di Dio”(2017) . “Forti pulsioni” (2018) dedicato a Niccolò Paganini è del 2018 e l’ultima fatica riguarda i Sestieri di Genova
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