Più sei lontano dal centro delle operazioni, più sei distante dalla verità. Oltre la cronaca: la vicenda di Silvia Romano

“Più sei lontano dal centro delle operazioni, più sei distante dalla verità”.
Questo il commento autorevole di un esponente dei ROS, che vanta nel suo curriculum molte operazioni contro la criminalità organizzata e una lunga carriera operativa, alle nostre domande sulla vicenda di Silvia Romano.
La storia di Silvia Romano ha fatto scorrere fiumi di parole, miliardi delle quali totalmente inutili, alcune di politici che in altre epoche della Repubblica non sarebbero stati neanche di quarta fila, altri che invece governano e fanno a gara per twittare più velocemente della concorrenza. In mezzo ci sono le persone che ammorbate dalla quarantena si dividono tra pro e contro, in un tragico “ballo di balle”, alcune delle quali spaziali.

Vogliamo subito sgomberare dal campo la questione della scelta di andare ad aiutare le persone in posti difficili, diversi per cultura e abitudini dal nostro Paese. Farlo è un atto di umanità straordinario, di cui molti sono incapaci anche nei confronti del vicino di casa.

Ma il mondo è un posto pericoloso e quindi la scelta di andare a fare volontariato in zone insicure va fatta dopo una preparazione che può durare anche molti mesi e prevede la conoscenza approfondita del territorio e delle sue dinamiche. Un esempio su tutti: se vai in zone di guerra, o instabili politicamente, e non conosci la lingua locale, ti toccherà trovare un interprete che quasi certamente sarà una spia. Alcuni lo sono in maniera inconsapevole (quasi mai) altri lo fanno di mestiere. Gli stessi operatori, i cooperanti, o gli inviati, diventano un veicolo di informazioni, l’importante è esserne consapevoli per evitare di essere rapiti o ammazzati.

Silvia Romano, la cooperante italiana rientrata in patria ieri, fortunatamente in buone condizioni di salute, è stata rapita il 20 novembre del 2018 da Al-Shabaab, in arabo “la Gioventù”, che è un’organizzazione jihadista somala fondata nel 2006 e affiliata ad al-Qaeda.  Dal 2008 il gruppo terroristico ha svolto offensive armate per rovesciare il governo di Mogadiscio, appoggiato dall’ONU, prendere il potere e applicare la Shari’a .

Gli attacchi militari del gruppo dei “giovani” (la Gioventù) si concentra soprattutto su Hotel e strutture governative somale, ma anche contro le forze militari dell’AMISOM, presenti dal 2007 con oltre 20mila soldati nella zona sud della Somalia, per rendere i confini tra Kenya e Somalia un po’ più “sicuri”. Per destabilizzare ancora di più la zona tra Somalia e Kenya, se mai ce ne fosse bisogno, il gruppo militare filo jihadista ha intensificato l’attività legata ai rapimenti proprio nell’area keniota.

Chi arma e finanzia Al-Shabaab?
Per le armi in prima linea c’è l’Eritrea. Molti fondi poi provengono da altri stati islamici del Medio Oriente con finanziamenti che raggiungono i 100 milioni di dollari all’anno. Altri introiti derivano da tasse, estorsioni e contributi per la “guerra santa” e dal contrabbando di zucchero con il Kenya.

 

La Shari’a
La parola Shari’a è entrata da qualche tempo nel nostro vocabolario, divenendo gradualmente un termine di uso comune, inflazionato, e del quale si abusa molto spesso senza conoscerne il significato, lasciando spazio a pericolose banalizzazioni. Così succede anche nel dibattito sull’Islam, dove la tendenza a fuorviare l’opinione pubblica sul significato della parola shari’a, strumentalizzandola a fini politici, è una prerogativa tanto degli islamofobi quanto dei fondamentalisti islamici, i cui discorsi sono a volte sovrapponibili.
La Shari’a non è un complesso di leggi di diritto positivo – il diritto positivo è dato dalle norme vigenti in uno Stato, e infatti non esiste un singolo documento pubblicato col nome di “Shari’a” -, ma un universo di riferimenti etici, di comportamenti e consuetudini utili a indicare ai musulmani la condotta migliore da tenere.
Shari’a significa letteralmente “strada battuta verso l’acqua, sentiero”, che sarà “sconosciuto agli uomini, specie quelli privi di adeguati studi teologici”.
È comprensibile, quindi, se un gran numero di musulmani non si dirà contrario alla Shari’a anche se buona parte di essi vi dirà di essere contrario ad azioni come la lapidazione, la fustigazione, e l’amputazione che però sappiamo essere quantomeno correlate alla Shari’a.
Anche pregare, astenersi dagli alcolici o dalla carne maiale, digiunare, versare l’elemosina, compiere buone azioni, andare in pellegrinaggio si inseriscono a tutti gli effetti nella “Shari’a”, ed è per questo che un musulmano è restio a “prenderne le distanze”.

Il Jihad
La parola Jihad (sforzo) ha finito col designare la nozione di “guerra santa”, laddove in realtà per il musulmano il Jihadcoincide col concetto personale di “grande Jihad”, cioè “impegno a comportarsi da buon musulmano” nella vita quotidiana e solo in secondo luogo col concetto di “piccolo jihad” cioè di “guerra per difendersi dagli aggressori”.

Tornando alla cronaca
Sulla vicenda della giovane cooperante italiana è necessario fare qualche distinguo per allontanarsi dall’ondata di banale contrapposizione politica che ormai contraddistingue l’arena politica italiana. La nostra concittadina è tornata in Patria dopo 18 mesi di prigionia, e considerando chi l’ha rapita, cioè un gruppo di criminali assassini che ha ammazzato centinaia di persone senza alcuno scrupolo, ha del miracoloso. Francamente, per quella poca esperienza che abbiamo di Medio Oriente, pensavamo l’avessero giustiziata quasi subito come è accaduto per Giulio Regeni.
La sorpresa è stata ancora più grande quando al suo arrivo si è visto chiaramente che si era convertita all’Islam, scelta del tutto rispettabile, lecita e sancita dalla Costituzione, ma che, ci sia concesso, il fatto che sia avvenuta in un periodo di detenzione lascia qualche interrogativo aperto.

L’Imam di Milano
L’Imam di Milano, Yahya Pallavicini, in una nota di oggi dichiara che il il dibattito nato intorno alla conversione alla fede islamica di Silvia Romano, è una sorta di tribunale dell’inquisizione”. Poi continua “ho l’impressione che sulla sua conversione si stia aprendo un dibattito esagerato, perché credo dovremmo essere tutti contenti che una cittadina italiana è stata liberata dai rapitori, è sana ed è a casa.  Se poi in questo percorso travagliato ha anche trovato e maturato, con consapevolezza e libertà, una scelta di fede e di cambiamento sono questioni sue personali anche complesse”.
La posizione dell’Imam è comprensibile anche se dimentica, o fa finta di dimenticare, in quali condizioni è avvenuta la conversione. Forse per sopravvivere in condizioni così difficili ha dovuto fare questa scelta spirituale, ma rimane comunque difficile da capire, e francamente è poco comprensibile anche dal punto dell’opportunità, il perché presentarsi in aeroporto nelle nuove vesti di Aisha, il nome scelto da prigioniera.
Perché, se come ci hanno riferito alcuni nostri contatti in Medio Oriente, Silvia ha atteso il momento opportuno per tornare in Italia, dai criminali di Al Shaabab è stata trattata bene e la sua conversione è stata totalmente autonoma, allora forse qualche spiegazione in più ce la meritiamo tutti.

Una critica va fatta anche a chi ha deciso di appuntarsi una medaglietta sul petto per la liberazione di questa ragazza che, tornata in Italia dalla famiglia dopo un anno e mezzo di prigionia, è stata data in pasto a tutti, cittadini e politica, in un momento così difficile di emergenza sanitaria e di tensioni sociali. In questa perenne campagna elettorale, dopo che ogni fazione avrà strappato, a suo uso e consumo, un pezzetto di Silvia Romano, lo lascerà lì in attesa di un altro osso da rosicchiare.
Sarebbe stato più sensato optare per un periodo di decantazione, vicino alla sua famiglia, in un posto riparato dallo schifo social, dove Silvia potesse scrollarsi di dosso questi lunghi mesi di detenzione e dove chi di dovere potesse approfondire altri aspetti legati alla sua detenzione.
Una questione a cui il Parlamento dovrebbe mettere mano subito è il divieto di contrattazione e pagamento di riscatto con qualsivoglia terrorista, come fu fatto con la legge n.82 del 1991 che stabilì l’obbligo del «sequestro dei beni appartenenti alla persona sequestrata, al coniuge, e ai parenti e affini conviventi». Lo Stato decise che i parenti dei rapiti potessero ricevere i propri cari a pezzi ma che non sarebbe sceso a patti con la criminalità organizzata. Fu una scelta dolorosa che stroncò un giro di affari miliardario per le mafie.
Perché con i 4 milioni di euro del riscatto ci si possono comprare 20 mila AK47.

L’augurio è che Silvia possa tornare, un giorno, veramente libera.

fp

Fabio Palli

Spirito libero con un pessimo carattere. Fotoreporter in teatro operativo, ho lavorato nella ex Jugoslavia, in Libano e nella Striscia di Gaza. Mi occupo di inchieste sulle mafie e di geopolitica.