“Questo è uno strano Paese dove i fatti si discutono in TV a colpi di dirette”. A puntare il dito contro la campagna mediatica delle scarcerazioni facili è Nicola D’Amore, agente di Polizia Penitenziaria nella casa circondariale della “Dozza” di Bologna e delegato SiNAPPe che, dopo 12 anni di servizio al carcere di massima sicurezza di Milano Opera, conosce bene la vita dietro le sbarre e il 41-bis.
“Sento dire tante sciocchezze, che i boss scarcerati sono parte della trattativa Stato-mafia, che i magistrati di sorveglianza sono mafiosi. I compiti del magistrato di sorveglianza sono delicati e certe trasmissioni televisive invece sono irrispettose. Si è fatto passare un messaggio sbagliato e chi non conosce il carcere adesso ne sa ancora meno”.
Si arrabbia D’Amore con chi ha fatto passare la concessione dei domiciliari come una vacanza premio: “I detenuti al 41-bis non sono stati scarcerati. I domiciliari sono uno strumento giuridico che non interrompe l’esecuzione penale, e che è stato messo in atto in risposta a una situazione, quella dell’epidemia, che ci è capitata addosso da un giorno all’altro”.
Ed è proprio questo il punto: il carcere sta vivendo un momento difficile e “l’8 maggio a Bologna è morto il secondo detenuto”, ricorda sempre D’Amore sottolineando che “anche in carcere si muore di Covid-19”. E sarebbero almeno quattro i morti tra i detenuti fino ad oggi, 159 i casi positivi. Un bilancio che l’Associazione Antigone Per i diritti e le garanzie nel sistema penale denuncia calcolato al ribasso, ma avere notizie confermate è difficile come mantenere il distanziamento sociale.
Di certo il virus, insieme al suo ormai ex capo Francesco Basentini dimissionato in fretta e furia dal Ministro della Giustizia, ha travolto anche l’amministrazione penitenziaria che si è trovata impreparata ad affrontare l’emergenza sanitaria, impelagata in quello che è un problema primitivo delle nostre carceri, e cioè il sovraffollamento.
Conferma Michele Di Lecce, già Procuratore Capo di Genova e oggi consulente anticorruzione della Struttura Commissariale per la ricostruzione del viadotto Polcevera: “Di fronte al sovraffollamento, troppo spesso l’amministrazione penitenziaria si è rifugiata nella soluzione banale dell’aumento del numero delle strutture penitenziarie. Ma sono altri gli interventi, soprattutto in tema di misure sanitarie, che si dovevano fare prima e indipendentemente dal Covid. Penso all’ampliamento dei reparti CDT – i Centri Diagnostici Terapeutici – che già ci sono in alcuni istituti. Si tratta di problemi che non erano certo sconosciuti”.
Dello stesso avviso anche Sandro Sandulli, Generale dei Carabinieri e già Capocentro della DIA di Genova che rincara la dose: “Il sistema carceri è da sempre oggetto di una sottovalutazione che periodicamente porta a prese di posizione più o meno intransigenti e più o meno buoniste, ma alla luce delle quali non è mai stato fatto niente di serio, organico e ispirato a una progettualità strategica. Le carceri, che dovrebbero essere luogo di espiazione della pena ma anche di recupero del detenuto, spesso nulla hanno da invidiare all’Inferno dantesco”.
Anche i numeri parlano chiaro: al 29 febbraio 2020, i detenuti presenti nelle carceri italiane erano 61.230 contro i 50.931 posti disponibili da regolamento.
“È per questo che ciclicamente si progetta e si concretizza il liberi tutti, finalizzato a sfoltire le strutture e a rendere la vita dei reclusi non tanto più umana ma minimamente sopportabile”, commenta ancora Sandulli.
Ma è stato un liberi tutti anche per i 376 mafiosi al 41-bis?
Non proprio.
Anche se questa è una storia che può non piacere, se vogliamo andare oltre i numeri dello scoop dobbiamo restare ai fatti. Perché fare molto male a tutta la comunità penitenziaria intossicandosi di sensazionalismo è un attimo. Ed è un peccato perché la precisione, al contrario, si trova nei dettagli. E i dettagli ci dicono che i boss scarcerati sono 4. Mischiati a 196 detenuti in attesa di giudizio e dunque presunti innocenti, insieme ad altri 176 che la magistratura anti-mafia non aveva ritenuto così pericolosi da sottoporli al regime duro, hanno ottenuto i domiciliari il camorrista Pasquale Zagaria, i siciliani Francesco Bonura e Vincenzo Di Piazza, e lo ‘ndranghetista Vincenzo Iannazzo.
Quattro. Tutti finiti ai domiciliari per “condizioni di grave infermità fisica” aggravate dal rischio di esposizione al contagio da Covid-19.
Restiamo ai fatti.
“Si tratta di casi inquadrabili in un regime generale che vale per tutti i detenuti e dunque anche per quelli al 41-bis: parlo del bilanciamento degli interessi che sono dati dall’esigenza di certezza della pena da una parte, e dalla salvaguardia del diritto alla salute dall’altra”, dichiara Di Lecce aggiungendo che “l’esecuzione penale deve essere rispettosa dell’umanità del trattamento penitenziario”. Non a caso questa misura è chiamata comunemente “detenzione domiciliare umanitaria” ed è “indipendente dalla caratura criminale e dal regime di detenzione”, continua Di Lecce facendo notare che “se anche questi provvedimenti dei giudici o dei tribunali di sorveglianza hanno scatenato allarme nell’opinione pubblica, si tratta semplicemente di applicare norme da sempre vigenti nel nostro ordinamento che fortunatamente non consentono di buttare al macero un detenuto”.
Ma c’è un però: “Tra le scarcerazioni per il rischio Covid, le invocazioni all’indulto e la buona condotta che riduce l’anno del detenuto a 9 mesi anziché 12, si perdono di vista le vittime”, critica invece Sandulli aggiungendo che alla fine “in tutto questo discutere vacuo di carcere e scarcerazioni non c’è mai qualcuno che pensi alla vittima. Tutti parlano e volano alto senza ricordare che la vera persona fragile è chi ha subito il sopruso, la vigliaccata, la violenza”.
E qui si ritorna indietro al problema del bilanciamento degli interessi.
“Tra i casi dei boss al 41-bis ce n’è uno che doveva uscire dal carcere a settembre e quindi sarebbe stata una follia non concedere i domiciliari a questa persona ormai anziana”, chiarisce D’Amore. Il riferimento è a Francesco Bonura, boss dell’Uditore e uomo di fiducia di Bernardo Provenzano, per cui si legge nell’ordinanza del magistrato di sorveglianza di Milano che “si deve ragionevolmente escludere il pericolo di fuga o di reiterazione dei reati” a causa del “compromesso quadro clinico del condannato”.
Confermare il regime del carcere duro in questi casi conclamati renderebbe lo strumento del 41-bis assimilabile alla tortura e dunque un’arma spuntata nelle mani della magistratura?
“Dalla Carta Costituzionale in avanti, tutta la legislazione ha confermato e ribadito l’umanizzazione della pena”, risponde Di Lecce confermando che “il carcere non è una sede nella quale la punizione debba avvenire sempre e in qualunque condizione perché si è colpevoli. La pena applicata da uno stato di diritto deve essere eseguita secondo criteri di umanità e di rieducazione del condannato. Altrimenti è una vendetta”.
E i giudici italiani sono tenuti a dare applicazione a questi principi anche sotto il vaglio della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che il 28 ottobre 2018, ad esempio, ha condannato l’Italia per violazione dell’art. 3 della CEDU proprio in relazione all’applicazione del regime del 41-bis a Bernardo Provenzano, nonostante “il progressivo e avanzato deterioramento della salute fisica e cognitiva del detenuto” (Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo del 25 ottobre 2018 – Ricorso n. 55080/13 – Causa Provenzano contro Italia).
Il quadro è chiaro ma complicato, e la campagna mediatica sulle scarcerazioni facili ha mischiato ancora le carte facendo delle ordinanze un caso politico e dei magistrati carne da tritacarne.
Restiamo ai fatti.
La precisione dicevamo è nei dettagli ed eccone uno che ci sembra importante: mentre il Salvini di turno urla sui social tutta la sua indignazione, ci ricordiamo che fu proprio la coalizione di Centro Destra, il Berlusconi IV con quattro ministri della Lega compreso Roberto Maroni agli Interni, che per far fronte al solito problema del sovraffollamento, nel 2010 stabilì per decreto la possibilità per il magistrato di sorveglianza di far scontare al condannato l’ultimo anno di pena in detenzione domiciliare. E del Codiv-19 non c’era nemmeno l’ombra.
Fatti e dettagli.
Pasquale Zagaria. Noto boss di camorra, condannato a vent’anni di carcere duro. Rilevante spessore criminale. Si è costituito spontaneamente in carcere. Fine pena 2024. Zagaria necessita di cure ma il centro di Sassari che lo segue è stato trasformato in ospedale Covid e non c’è posto in tutta la Sardegna che possa prenderlo in carico. Il Tribunale di Sorveglianza chiede al DAP – il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria – il trasferimento in altro istituto di pena ma non ottiene risposta. La prima udienza è del 26 marzo. La richiesta al DAP parte il 4 aprile. Il 23 aprile arriva la decisione: in assenza di segnali dall’amministrazione penitenziaria, a Zagaria sono concessi i domiciliari. L’alternativa era tenerlo dentro, privo di cure e a rischio di contagio.
Ecco. Questo è il contesto.
“Al 41-bis i detenuti hanno certamente meno contatti tra loro perché possono socializzare in un massimo di tre”, chiarisce D’Amore spiegando che tuttavia “entrano in contatto con la polizia penitenziaria e con i sanitari. Poi c’è chi prepara il cibo e chi fa le pulizie. Tutti possibili veicoli di contagio. Se poi vogliamo tirare in ballo anche la questione dei DPI, direi che ricevere 3 mascherine a testa in 20 giorni è un po’ pochino. Ritenere il carcere sicuro sotto l’aspetto sanitario, è da pazzi”.
Se qualcosa in questa vicenda non ha funzionato “é la collaborazione tra l’amministrazione penitenziaria e la magistratura di sorveglianza”, dichiara Di Lecce aggiungendo che “hanno ambiti di intervento diversi ma, anche per principio costituzionale, dovrebbero collaborare lealmente”.
I detenuti al 41-bis sono 700 ma gli ultrasettantenni con problemi di salute sono solamente 74 e non sarebbe stato difficile pianificare un trasferimento. Invece l’amministrazione penitenziaria ha sottovalutato il problema salvo inventarsi, all’ultimo minuto, il monitoraggio sui detenuti over 70. Un errore di gestione tanto macroscopico che lo vedrebbe anche un orbo, eppure persino Nando Dalla Chiesa è entrato a piedi uniti nella polemica contro i magistrati: “Premurose badanti che dispensano benefici insensati ai boss mafiosi con garrula semplicità”, li ha definiti.
Restiamo ai fatti allora.
I fatti ci dicono che “chi aveva la responsabilità decisionale di prendere le misure adeguate per contrastare il contagio in carcere, doveva agire per tempo, prevedere e programmare, e non farsi travolgere dagli eventi rendendosi impotente”, commenta Sandulli che poi dichiara: “In questo quadro, sotto il montare della polemica, spunta sempre come il sole la mattina il controllo degli ispettori del Ministero – e questo accade sovente anche per la sanità -, che mai una volta riescono a individuare precise responsabilità e a suggerire provvedimenti seri”.
Una risposta affrettata, come l’ultima trovata del “Decreto antiboss”, quello che prevede il parere obbligatorio del procuratore antimafia sull’istanza dei giudici di sorveglianza.
E i magistrati cosa dicono? “Si tratta di un’informazione in più sulla pericolosità sociale dei soggetti e sull’eventuale permanenza di legami con le organizzazioni criminali”, spiega Di Lecce ma che “non incide sulle condizioni di salute né sul trattamento specifico del singolo detenuto, né sulle motivazioni attinenti alla tutela della salute. Quindi non sposta il quadro. Di più. Ritengo non sia ipotizzabile né sostenibile un provvedimento di legge che annulli queste ordinanze. Se poi ci fossero provvedimenti non adeguatamente motivati, i rimedi si trovano già nel nostro ordinamento. E parlo del reclamo del Pubblico Ministero”.
Risposte affrettate che non contribuiscono a realizzare il bilanciamento tra le due tutele in gioco, quella della sicurezza collettiva e quella della salute, ma che rivelano tutto il loro significato politico: mostrare all’opinione pubblica che l’esecutivo può frenare i giudici. Un segnale pericoloso per il Paese perché uno Stato forte si fida dei suoi giudici.
Simona Tarzia
Sono una giornalista con il pallino dell’ambiente e mi piace pensare che l’informazione onesta possa risvegliarci da questa anestesia collettiva che permette a mafiosi e faccendieri di arricchirsi sulle spalle del territorio e della salute dei cittadini.
Il mio impegno nel giornalismo d’inchiesta mi è valso il “Premio Cronista 2023” del Gruppo Cronisti Liguri-FNSI per un mio articolo sul crollo di Ponte Morandi. Sono co-autrice di diversi reportage tra cui il docu “DigaVox” sull’edilizia sociale a Genova; il cortometraggio “Un altro mondo è possibile” sul sindaco di Riace, Mimmo Lucano; “Terra a perdere”, un’inchiesta sui poligoni NATO in Sardegna.