Il rilascio di Silvia Romano, di cui siamo felici, ci permette di fare una riflessione sul ruolo della Turchia negli equilibri dell’Area MENA e del Sahel
Il rilascio di Silvia Romano, la cooperante italiana rapita dal gruppo terroristico Al Shabaab, grazie all’intervento coordinato dei nostri servizi e di quelli turchi, ha in realtà messo in luce, se mai ce ne fosse stato bisogno, il ruolo apicale della Turchia in Africa orientale. Se ad alcuni può dar fastidio, o sembrare eccessivo che in questa zona così fragile stia prendendo forma una sorta di Neo-Ottomanesimo, come ben scritto da Michele Giorgio di Nena News, la realtà racconta una situazione incontrovertibile. Le forze in campo sono costituite da due direttrici principali, da una parte l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi, dall’altra Turchia e Qatar.
L’obiettivo di tutti i player in campo è quello del controllo dei porti e dello stretto di Bab-el-Mandeb da cui transita l’8% del petrolio mondiale, ovvero quasi 5 milioni di barili di greggio al giorno. Destinati all’Europa 2.8 milioni di barili, per il Medio Oriente e l’Asia poco più di 2 milioni. È vero che attraverso Hormuz ne transita il 30%, ma considerando la crescente tensione tra Stati Uniti e Iran, la comunità internazionale non può permettersi che due dei tre stretti commerciali fondamentali a livello globale (l’altro è Malacca) si trasformino, contemporaneamente, in zone di crisi.
L’accelerazione dell’influenza della Turchia nel Corno d’Africa si è avuta quando Mogadiscio ha dato mandato ad Ankara di fare esplorazioni petrolifere nell’Oceano Indiano. Ma gli interessi economici non si fermano solo al petrolio. La Turchia, non da oggi, rappresenta un cuneo in una zona d’Africa dove gli attriti per i confini incerti sono all’ordine del giorno. Nonostante la pace firmata nel luglio del 2018, la distensione fra Etiopia e Eritrea appare ancora lontana, e la “minaccia etiope”, per il dittatore eritreo Isaias Aferweki, è da sempre una buona leva per investire in armamenti.
Ma tensioni si verificano anche tra Etiopia e Somalia, Etiopia e Sudan, e personalmente non tralascerei le tensioni tra il Sudan del nord, musulmano e arabo, e il Sud-Sudan culturalmente sub-sahariano, animista e cristiano. È in un contesto così intricato che entrano in gioco le ONG islamiste, grimaldello apparentemente disarmato di Erdoğan, che con interventi umanitari, in realtà contribuiscono alla penetrazione “dei nuovi ottomani” nei paesi dell’Africa orientale cementando i rapporti con la popolazione distribuendo generi di prima necessità, medicine, e materiale medico per gli ospedali. Ma alle ONG si affiancano i servizi segreti turchi e la supervisione di gruppi armati più o meno regolari, come ad esempio Al Shabaab. In questo quadro complesso, come spesso accade quando si parla di dinamiche africane, il Sudan non ha un ruolo secondario come abbiamo detto.
Infatti nel dicembre del 2018 il Presidente turco Tayyip Erdoğan ha fatto visita a Suakin, dove gli sarebbe stato garantito l’utilizzo del nuovo porto per attività turistiche e per il transito dei pellegrini per La Mecca. L’accordo tra Sudan e Turchia, non visto di buon grado da Israele, dall’Egitto ma anche dai sauditi considerata la stretta alleanza tra Ankara e il Qatar, avrebbe un valore commerciale di 650 milioni di dollari.
Suakin è situato 60 chilometri a sud di Port Sudan, rappresenta solo uno dei tasselli di un ampio programma di investimenti turchi nell’economia sudanese che include anche la costruzione di un nuovo aeroporto a Khartoum, per un valore complessivo di 10 miliardi di dollari. Ma per capire le dinamiche politiche e il ruolo strategico che ha la Turchia in molte aree geografiche a influenza islamica, dobbiamo fare un salto indietro di almeno 20 anni quando il “più importante architetto” della politica estera turca, (cfr. Federico de Renzi – La Turchia nello spazio euromediterraneo) il Professor Ahmet Davutoğlu, nel ruolo di consigliere per gli esteri di Erdoğan e successivamente Ministro degli Esteri nel 2009, considerava la Turchia “come un paese con un bacino di terra compatto, il cui epicentro sono i Balcani, il Medio Oriente e il Caucaso, in generale il centro dell’Eurasia e si trova al centro della Rimland Belt che va dal Meditterraneo al Pacifico”.
Quello che oggi si può definire lo spazio geo-politico ottomano. Ma se questa sembra solo teoria, la “profondità strategica” di Ahmet Davutoğlu si concretizza attraverso la creazione di alleanze che mantengano in equilibrio questo progetto di espansione commerciale attraverso tutto il mondo islamico. L’impegno della Turchia si sviluppa tanto in Asia Centrale come in Nord Africa e nel Caucaso “offrendo un modello di sviluppo economico attraverso le imprese turche, l’edilizia, l’istruzione e le ONG”.
In particolare il ruolo di queste ultime fa sì che l’Agenzia di Stato per gli aiuti, Il TIKA, operi in Asia Centrale (Kazakhstan) ma anche in 37 paesi dell’Africa attraverso le sedi di Addis Abeba, Khartum e Dakar. Ankara è anche presente a Gaza, in Somalia, Etiopia e Sudan con la IHH, Fondazione per i Diritti dell’Uomo e la TUSKON, Confederazione degli Uomini d’affari e Industriali della Turchia. Forse il progetto di eleggere la Turchia a “superpotenza Islamica” come nei progetti di Ahmet Davutoğlu, non sembra più così velleitario.
fp
Spirito libero con un pessimo carattere. Fotoreporter in teatro operativo, ho lavorato nella ex Jugoslavia, in Libano e nella Striscia di Gaza. Mi occupo di inchieste sulle mafie e di geopolitica.