Alfredo, Alfredo

Attenti ai giochi della memoria. E attenti ai giudizi postumi. L’osservazione è fiorita del tutto spontaneamente leggendo qualche “coccodrillo” pubblicato sui quotidiani cartacei, siti on line e giornali in rete per la morte di Alfredo Biondi, pisano di origini ma genovese per  adozione, avvocato, parlamentare, pluriministro e vicepresidente della Camera, che lunedì’ avrebbe dovuto compiere 92 anni.

E ho letto sui giornali e in rete un po’ di tutto. Dal ricordo di chi lo considerava un “maestro” da prendere ad esempio e, comunque, sempre prodigo di consigli in tribunale come in politica, appassionato tifoso rossoblu’, ricordi di quelli che lo avevano conosciuto e frequentato veramente durante gli anni della politica nelle aule di Montecitorio, ma anche nelle carceri e in quelle di giustizia, come guardasigilli di uno sfortunato governo Berlusconi, ma anche come ministro all’ecologia con visione ambientalista durante il governo di Bettino Craxi, o a presiedere il dicastero delle politiche comunitarie con il presidente del consiglio Amintore Fanfani. Ministero senza portafoglio di un esecutivo che duro’ in carica 8 mesi e 3 giorni, dal primo dicembre del 1982 al 4 agosto 1983. Allora le chiamavano crisi balneari. E accadde che alla fine di aprile di quell’anno il comitato Centrale del PSI deliberò l’uscita del partito dal governo al fine di provocare lo scioglimento anticipato delle camere, che infatti fu decretato il 4 maggio. Con inutili tentativi di ricomporre una maggioranza e crisi balneare tre mesi più tardi. Un governo in cui figurava un altro genovese, Bruno Orsini, rappresentante della Dc, come sottosegretario del consiglio dei ministri.

Vittorio Pezzuto

Ho letto il ricordo del radicale Vittorio Pezzuto che lo ha incrociato durante la sua esperienza politica a Roma e nella nostra città, legato a Biondi anche dalla passione per la compagine rossoblu’: “ Un grande genovese nato a Pisa, un liberale che non amava le pantofole, di quelli veri, mica farlocca come centinaia di soprav venuti turisti della politica. Un amante appassionato e fedele ( quindi disperato) del Genoa. L’amico leale che Marco Pannella e il Partito Radicale hanno sempre avuto al proprio fianco, in prima line a nella battaglia per Enzo Tortora e una giustiIa giusta. L’avvocato che mi difese gratuitamente, riuscendo persino a farmi assolvere, nel processo per spaccio di droga a Porta Portese. Ciao Alfredo, campione di altri tempi (speriamo anche futuri)”.

Già, personaggio completo e a tutto tondo, con quel suo amore per l’arringa, per la battuta irridente ma mai cattiva, politico d’altri tempi che ha vissuto miserie e nobiltà della prima repubblica e poi la seconda nata sulle ceneri di Tangentopoli. Politico di un periodo particolarmente complesso, giocato di mille sfumature tra garantismo e giustizialismo.

Cosi’ c’è stato anche chi si è limitato a ricordarlo come l’estensore del “decreto salva ladri” come guardasigilli durante il primo Governo Berlusconi.

Roberto Baggio

Scrive un anonimo su “Il Fatto Quotidiano”: “Nel primo governo dell’ex cavaliere diventa ministro della Giustizia. Un incarico che gli regala notorietà il 13 di luglio. Mentre al Giant Stadium di New York Roberto Baggio stende la Bulgaria in semifinale con una doppietta, regalando alla Nazionale la finale dei mondiali, il governo vara il decreto Biondi, che abolisce la custodia cautelare per i reati finanziari (tra cui la corruzione e la concussione) e contro la Pubblica amministrazione, limitandola ai casi di omicidio e di reati associativi come mafia e terrorismo. Una legge fatta “per i poveri cristi”, sosterrà ancora nel 1996 l’allora guardasigilli in un’intervista al Corriere della Sera.

Il decreto, notarono in molti, era arrivato due mesi dopo l’esplosione del caso Fiamme Sporche: nell’aprile del 1994 il pool di Mani Pulite aveva scoperto che quasi tutte le grandi imprese di Milano pagavano tangenti ai finanzieri. Gli indagati erano arrivati a oltre 600, tra loro c’era anche Berlusconi. Potenza del provvidenziale decreto, i responsabili non possono essere arrestati e oltre 2.750 detenuti vengono rilasciati: in 350 erano finiti dentro per Tangentopoli.

Per protesta il pool di Milano si dimette. Gli italiani sono rapiti dal mondiale americano ma qualcuno se ne accorge: il “popolo dei fax” inonda gli indirizzi istituzionali, il decreto viene beffardemente ribattezzato con quel nome rimasto indelebile nella recente storia italiana: decreto Salvaladri. Lega e An, tremando all’idea di perdere consensi, minacciano di far cadere il governo.

“Forse qualcuno teme che il carcere faccia parlare altra gente. Che qualcuno venga ‘ massaggiato’ dai magistrati“, dice Umberto Bossi, due giorni dopo l’approvazione. Biondi si difende: “Sono un galantuomo. Pensare che possa agire per fare un servizio a qualcun altro mi offende“. Roberto Maroni, ministro dell’Interno, spara: “Li ha mossi un principio di autodifesa perché i magistrati del pool avevano ripreso a muoversi. Si voleva forse evitare che i magistrati potessero arrivare al vero bersaglio grosso”. Il decreto, in ogni caso, verrà lasciato decadere il 21 luglio. Dopo la caduta del governo, Biondi sarà vicepresidente della Camera, e poi senatore fino al 2008. Con la nascita del Pdl il suo nome viene cancellato dalle liste per il Parlamento. Lui lascia il berlusconismo e torna al passato: nel 2014, insieme a Renato Altissimo e Carlo Scognamiglio, fonda il movimento politico i Liberali”.

Tiziana Maiolo

Una ricostruzione in tema con i giorni nostri in cui si abbattono statue e si mettono semplicisticamente “al rogo” capolavori letterari e di cinematografia  che costringe Tiziana Maiolo, giornalista e parlamentare a scrivere un lungo articolo in difesa del povero Biondi su “Il Riformista”. Un articolo che contestualizza il periodo storico in cui l’intera classe politica viene messa in discussione dai magistrati, onesti, meno onesti e disonesti. E in cui di fronte al carcere e alle pressioni sotto interrogatorio qualcuno decide di togliersi la vita. Lo aveva definito non a caso qualche anno più tardi “ una legge fatta per i poveri cristi”. Spiega la Maiolo: “Quel che non avresti mai voluto vedere, sono i titoli con cui vieni ricordato oggi, da chi ti ha stimato e da chi non ha condiviso quel provvedimento sulla custodia cautelare, che non fu affatto una soluzione per tangentopoli, ma un tentativo di risolvere, per tutti, il problema degli eccessi del carcere preventivo. Ti ci eri impegnato, nonostante fosse chiaro che, se c’era un ruolo che nella vita non avresti mai voluto svolgere, era quello di Ministro della giustizia. Avresti gradito la Difesa, in quel 1994.

“Mi piacciono i generaloni”, dicevi ridacchiando con la consueta verve. Poi più seriamente: “gli uomini dell’esercito sono leali”. Quasi a dire che nel mondo dei processi, che lui frequentava con la sua toga di avvocato, i colpi alla schiena erano più frequenti delle sciabolate a viso aperto”. L’articolo della allora presidente della commissione giustizia della camera ha il,pregio di dipingere perfettamente il delicato momento del passaggio politico fra la prima e la seconda Repubblica. Istante catartico in cui il popolo ha l’impressione di poter finalmente gridare che il re è stato messo a nudo. Prosegue la Maiolo “Memmo Contestabile, che poi divenne sottosegretario, e io, che fui eletta Presidente della Commissione giustizia della Camera, eravamo entusiasti. Era il nostro Ministro. Alfredo no, non era proprio contento. Perché, al contrario di Silvio Berlusconi, che esibiva ancora la baldanza un po’ ingenua del neofita, e l’illusione che la vecchia casta politica si sarebbe arresa alla forza elettorale della “società civile”, Biondi aveva già annusato l’aria e non aveva sottovalutato le nubi nere che cominciavano a colorare l’orizzonte. Ma soprattutto l’avvocato Alfredo Biondi conosceva i magistrati. Non si era illuso di essere intoccabile, nonostante la sua reputazione -che comunque non fu mai scalfita – di persona integerrima. E dovrà sopportare le battutine del potente procuratore milanese Saverio Borrelli, che, non riuscendo a inviargli un’informazione di garanzia, insinuava che lui non fosse lucido “a una certa ora della sera”. Piccoli uomini, piccoli magistrati. Proprio perché era lucidissimo a tutte le ore, Biondi era preoccupato. E non si fidava. Aveva alle spalle l’undicesima legislatura, l’ultima della prima repubblica, e ancora negli occhi come era andata e come era finita.

Era stata la stagione in cui avevano comandato sulla politica i pubblici ministeri di Milano, i più puri tra i puri, che si proclamarono Mani Pulite senza tener conto che quarantun suicidi, quanti furono quelli di tangentopoli, forse qualche macchia possono averla lasciata. Ma era stata la stagione in cui, insieme agli arresti e alle conseguenti fiaccolate di entusiasmo di quella famosa “società civile” che tanto era piaciuta a Berlusconi, il Parlamento rispondeva chinando il capo, togliendo dal proprio corpo ogni giorno un nuovo pezzetto di sé. Un pezzetto dei propri diritti, della propria autonomia, delle proprie libertà. Nel 1993 tre importanti eventi seppellirono sotto terra il Parlamento e sua dignità. Così si presentava la galleria dei ministri che avevano amministrato la giustizia quando arrivò Alfredo Biondi, fresco di elezione con Forza Italia nell’inizio della seconda repubblica.

Claudio Martelli

Una voce telefonica aveva svolto il ruolo di cecchino e licenziato con un’informazione di garanzia il ministro di giustizia Claudio Martelli, il socialista che aveva voluto al suo fianco il magistrato Giovanni Falcone e che aveva messo al primo punto della sua politica sulla giustizia la lotta alla mafia. Forse aveva sbagliato tema, fatto sta che Borrelli lo mandò a casa.

Era poi arrivato il ministro “tecnico”, quel galantuomo di Giovanni Conso, voluto personalmente da Scalfaro e in seguito da lui medesimo gettato nel circo in pasto ai leoni. Era stato lo stesso Presidente della repubblica, con una regia neanche troppo occulta, insieme al Presidente del consiglio Giuliano Amato, a proporre un’uscita politica da tangentopoli. Ma aveva sbagliato i tempi, perché in contemporanea anche i pubblici ministeri di Milano, accolti come principi in quel salotto buono dello Studio Ambrosetti che ogni anno si riunisce a Cernobbio, luogo pensoso sulle rive del lago, avevano presentato la propria proposta. Che comportava la gogna e l’umiliazione dei politici. Al contrario del “decreto Conso”, che depenalizzava il reato di finanziamento pubblico e prevedeva una sorta di patteggiamento allargato per gli altri reati contro la Pubblica Amministrazione. Ma i pubblici ministeri volevano la gogna, non l’uscita dignitosa delle politica”.

E mi è capitato di intervistarlo proprio in quel periodo delicato.

Avevo 41 anni. Era domenica 18 dicembre di ventisei anni fa. In città l’atmosfera natalizia di poteva toccare. Mi ricevette nel suo studio di via Assarotti. Il governo e il guardasigilli era alle prese con gli strascichi di quella vicenda che aveva determinato una possibile crisi con caduta del governo e Alfredo Biondi era un ministro da qualche tempo nel mirino di magistrati e giornalisti.

Come era suo solito Alfredo Biondi parlò senza riserve.

“Il veleno arriva via telefono.Alfredo Biondi, ministro di Grazia e Giustizia è nel suo studio di via Assarotti. Dall’altra parte un solerte collaboratore fa il punto con lui sulle polemiche delle dimissioni di Di Pietro che hanno investito il “Guardasigilli” e sulla situazione politica. <<Guarda -gli spiega l’anonimo interlocutore – che per te si è scomodato addirittura il direttore di “Repubblica” Eugenio Scalfari, nel suo articolo sul Governo di Berlusconi ti definisce un avvocaticchio di provincia e ti silura senza mezzi temini>>. E’ sempre stato un lottatore Biondi, perciò l’intervista si anima. “….Poi va a braccio e toglie la sordina la risposta al direttore di “Repubblica”, pur giocata sui toni dell’ironia è durissima, cruenta.

Eugenio Scalfari

<<Quando leggo che quel grand’uomo di Scalfari, detto “portasfortuna” per le disgrazie reiterate e specifiche capitate a tutti i suoi sostenuti, da Berlinguer a De Mita, a Segni, per parlare dei più noti, sussurra all’orecchio di Berlusconi di togliermi di mezzo perché sono un avvocaticchio di provincia penso che proprio Scalfari mi abbia fatto un grosso regalo. Mi evita prima di tutto un’operazione di scongiuro che avrei fatto in caso di apprezzamento. In secondo luogo mi vanto di essere un avvocato che ha esercitato, esercita ed eserciterà la sua professione in una grande città del nord che forse Scalfari ignora chiamarsi Genova. Quanto a provincialismo – continua Biondi – mi permetto di ricordare le decine di processi, da piazza Fontana al maxi processo di Palermo, dal dirottamento Lauro al Banco Ambrosiano, processo che Scalfari dovrebbe conoscere meglio di altri, a decine e decine dello stesso livello in cui fuori dalla cinta daziaria clienti ed istituzioni, compresa l’arma dei Carabinieri mi hanno gratificato della loro fiducia>>. Poi la zampata che graffia e lascia il segno: <<Scalfari è stato un deputato socialista “trombato “ nel 1972 queste cose le sa benissimo ma è tanto fazioso da scordarsele. Si è dimenticato anche la mia relazione di minoranza sul’inchiesta sul SIFAR per cui ancora conservo i suoi scritti di apprezzamento. Ecco un altro esempio dell’ “operazione Biondi”, evidentemente non ancora conclusa se c’è qualche colpo di coda di serpentelli indomabili ai miei danni>>”.

Una lunga autodifesa, con santificazione di Di Pietro, allora capo dei pm milanesi: “<<Mi volevano far diventare una agnello sacrificale. Ora li vedo dall’altra parte, sconvolti perché Di Pietro nella lettera che mi ha consegnato non ha scritto quello che volevano loro e non è andato dal presidente Scalfaro a fare piagnistei. Sono stati solo schizzi di fango perché non ho mai compiuto azioni criticabili sul piano politico. Nessuno aveva preso in considerazione che avrei reagito, pensavano mi mettessi la coda fra le gambe. Dal 1968 sono in parlamento, dal 1964 mi occupo di politica attiva. Da quell’epoca non ho mai avuto rapporti di inimicizia. Oggi però il clima è diverso, non ho mai visto una simile cattiveria. La lotta politica è scesa sul personale, sull’insulto, sull’ingiuria e la cosa peggiore è il desiderio di mistificare la verità. Pare ci sia una sorta di autocompiacimento da parte di Biondi a calarsi nella,l’arte della vittima sacrificale che, consapevole della propria onesta si è ribellata alla congiura mettendo in piazza anche i pregi di chi ha preteso di mantenere le “debolezze” dell’uomo qualunque (<<Abito da quarant’anni in una casa in affitto e mia moglie va tutti i giorni personalmente a fare la spesa>>. Ma il ministro risponde seccato: <<Devo rispondere perché non c’è nessuno che lo faccia al mio posto. Perché queste cose non le hanno scritte i giornali non omologati? Perché nessuno ha scritto che a fare il ministro ci rimetto una cinquantina di milioni (di lire n.d.r.) all’anno. Detesto questi grandi vecchi del giornalismo miliardario. Moralisti miliardari a libro paga delle televisioni che fanno consigli a tutti. Ci sono interi comitati di redazione dei giornali che mi conoscono per la mia vita professionale. Nessuno ha speso una parola in mia difesa>>”.

Adriano Sansa

L’ultima bordata tocca all’allora sindaco Adriano Sansa, magistrato salito al soglio di palazzo Tursi, dopo le dimissioni di Romano Merlo a cui aveva fatto seguito la nomina di Claudio Burlando, precedentemente vicesindaco. Burlando era stato implicato nell’inchiesta per il sottopasso di Caricamento e aveva dovuto lasciare il Comune nella mano del commissario Vittorio Stelo. E nelle amministrative il centro sinistra aveva presentato come candidato proprio Adriano Sansa che aveva vinto sul rappresentante della Lega Enrico Serra che ebbe un successo inaspettato. A dimostrazione, probabilmente, che l’andata “giustizialista” aveva un po’ intorpidito le coscienze garantiste. Capitolo, quello dell’ex magistrato diventato sindaco affrontato senza mezze misure in quell’intervista pochi giorni prima di Natale: “E poi in fondo, ma non ultimo per importanza, anzi c’è il capitolo Sansa. Il sindaco di Genova che ha definito traditori i ministri e ha “bollato” Biondi, in qualità di ministro come una delle figure più squallide dell’Italia dal dopoguerra ad oggi. <<Non ho capito questa sua animosità- spiega Biondi agitando il ritaglio di giornale con l’intervista di Sansa- E dire che lo conosco da tanto tempo, studiava con mio cognato Mario Susan. Anni fa gli avevo chiesto di candidarsi per un collegio senatoriale del PLI, il mio. Ricordo che mi disse di non ritenere di dover fare questo passo, ma che tuttavia mi era grato. Ma quale città al mondo ha un sindaco che si permette tanto. Evidentemente in lui ha vinto il senso della corporazione, della deità infranta, della casta intangibile, sul nuovo ruolo>>? E la rivincita di Biondi si trasforma in vendetta, una vendetta gustata fredda. A questo punto sa di poter calcare la mano: <<Mi sono chiesto perché il Prefetto e il Procuratore non abbiano preso posizione. Questi sono reati procedibili d’ufficio. Io aspetto le scuse di Sansa e, a dire il vero, dopo le dichiarazioni di Catelani e Dinacci mi attendevo di trovare in ufficio una lettera di scuse o magari una dichiarazione pubblica di errore. Ora quelle scuse le esigo, perché potrei chiedere anche indanni per calunnia e assicurarmi la vecchiaia. O meglio, quei soldi potrei darli in beneficenza>>. Arriva Natale e pace sia”.

Saverio Borrelli

E comunque Tiziana Maiolo svolge un’opera di contestualizzazione storica, necessaria in un’epoca in cui anche l’informazione vive di spot e le sfumature ove vi siano non vengono percepite. Come direbbe Pier Luigi Bersani era quest’acqua qua: “Bastò che il procuratore di Milano Borrelli andasse in tv a dichiarare sdegnato che il decreto Conso era un “colpo di spugna” perché tutti i giornali in coro scrivessero “colpo di spugna”, e riprendessero le fiaccolate. E gli avvisi di garanzia e i suicidi. Ma i suicidi non furono solo quarantuno, in quell’anno, ma quarantuno più novecentoquarantacinque, il numero dei parlamentari che, voto più voto meno, uccisero se stessi, la propria dignità, la propria autonomia dagli altri poteri dello Stato, insieme all’immunità prevista dalla Costituzione. Andammo al patibolo, vittime della furia giacobina che invadeva il Paese, ma anche della nostra debolezza. Ecco perché il mio amico Alfredo, pur non avendo voluto mai andare a occupare quel posto dove erano già stati ghigliottinati Martelli e Conso, rialzò la testa quando, da avvocato e da liberale, decise di affrontare il problema della custodia cautelare.

Chi dice che il “decreto Biondi” (in realtà era “decreto Biondi-Maroni”, prima che il ministro della Lega facesse il suo “disconoscimento di paternità”, come lo definì lo stesso Guardasigilli) fu scritto per favorire la politica, mente spudoratamente. Lo dicono i numeri: dei 2750 detenuti che furono scarcerati in quei giorni, solo 43 erano stati arrestati per fatti legati a tangentopoli. Ma il dato più eclatante è il seguente: quando il governo fu costretto a ritirare il decreto, meno del 10% delle persone che erano state scarcerate fu di nuovo ammanettato. Tanto era indispensabile la custodia cautelare di massa. Alfredo ha sofferto molto, per quella vicenda. Memmo Contestabile, che ha un senso dello humor simile a quello del nostro amico che da ieri ci ha lasciati, ricorda episodi esilaranti. «Nel breve tragitto che eravamo costretti a fare dalla Camera al Senato, dovevamo subire insulti continui. I cittadini si insinuavano tra noi e le nostre scorte e ci riempivano di sputi. Arrivavamo in Parlamento tutti bagnati di saliva». Ma c’era poco da ridere. E fu di nuovo la regia perfetta dei pubblici ministeri di Milano a far scattare la mannaia. Se ai tempi del decreto Conso era stata la figura un po’ ieratica del procuratore Borrelli, con occhialini d’oro e foglietto in mano, a uccidere il ministro e la sua legge, a Biondi fu elargita un’immagine selvaggia di quattro giovanotti scarmigliati e con la barba lunga. I pm Di Pietro, Colombo, Greco e Davigo dissero che senza manette loro non potevano lavorare, quindi erano costretti a chiedere il trasferimento.

Francesco De Lorenzo

La regia televisiva comportò anche che, mentre i quattro parlavano, scorressero alle loro spalle le immagini di persone famose come l’ex ministro De Lorenzo (che comunque non fu più riarrestato) che lasciavano il carcere. La gogna andava in onda su ogni rete. Il “decreto Biondi” visse sei giorni. Nacque di mercoledi, il 13 luglio 1994. Morì il 19, quando Giuliano Ferrara, ministro per i rapporti con il Parlamento, lo ritirò ufficialmente. Ma molti di noi di Forza Italia lo votammo lo stesso. Avevamo preso coraggio, rispetto ai tempi (un anno prima) della prima repubblica. E lo dobbiamo alla forza di un uomo come Alfredo Biondi. È vero, aveva un nodo in gola e non riusciva a parlare, la notte precedente la bruciante sconfitta, quando Berlusconi lo chiamò a Palazzo Chigi per prendere la decisione. Ma era il nodo in gola di una persona dignitosa e sempre attenta alle garanzie di tutti. Che aveva dedicato la vita a realizzare i principi liberali con cui era cresciuto, dall’economia alla giustizia, e che vedeva la sua vita improvvisamente ristretta e vincolata a un solo episodio. A qualcosa in cui credeva, a un processo giusto in cui accusa e difesa potessero avere lo stesso peso e in cui non si sbattesse la gente in galera prima di esser stata giudicata.

Tutte cose difficili da capire sia da quella sinistra di allora che sosteneva le campagne di moralizzazione dei pubblici ministeri ma poi prendeva i soldi da Mosca, che da quattro giovanotti con la barba lunga che in fondo avevano solo vinto un concorso. E che non avevano nella propria cultura giuridica – neanche quello che si fa chiamare “dottor Sottile” – neanche un grammo di quei principi che hanno caratterizzato la vita intera di questo grande novantaduenne che ci ha lasciato.”.

Claudio Burlando

Fin qui la ricostruzione storica… di un periodo delicato e difficile. Qualcuno si attarda a spiegare che tutto cominciò da li. Io credo che quella metafora “Non chiedermi dove andremo a finire perché già ci siamo” gia’ allora soffiasse forte.

Quattro anni dopo, ho avuto la possibilità di intervistare nuovamente Alfredo Biondi, allora vicepresidente della Camera. Mancavano due settimane al Natale e l’articolo, era stato costruito sui genovesi, più o meno  illustri da “premiare” o al contrario da “bacchettare”. Niente più che un gioco, anche se poi, nell’interpretarlo occorre saper cogliere ancora una volta le sfumature. Nel mirino gli imprenditori…. “Miliardari che mantengono il portafogli a destra e hanno il cuore a sinistra. Giocano a golf, fanno parte dei salotti bene in cui tritano giudizi in punta di forchetta e poi si sentono buoni perché solidarizzano con gli onesti lavoratori, magari con i poveri disoccupati”. Crocifisso Burlando: “ un figlio del popolo che vive frequentando persone di ceto opposto”. Buono invece  l’allora leader della Lega Sergio Castellaneta: “È un falso cattivo. Il suo solitamente è un insulto di protesta e non di disprezzo. Irride il falso buonismo e il conformismo di una città bigotta”. Boccia Aldo Spinelli : “È l’esempio classico di quello che non si dovrebbe essere. Basti pensare che è andato d’accordo con tutti i ministri che si sono succeduti, da Prandini a Burlando”. Assolve il sacerdote politologo Baget Bozzò: “A differenza di altri studiosi come lui ha avuto il coraggio di schierarsi”.

Beppe Grillo

E salva perfino un Beppe Grillo ante Cinque Stelle, ma già probabile padre dell’antipolitica: “Le sue finalità sono buone. Riesce a dire cose che la gente talvolta pensa ma non ha il coraggio di proferire”. Cosi’ nel clima natalizio di 22 anni fa, a sorpresa, piazza fra i buoni anche l’ex sindaco Adriano Sansa già passato per le ire di Burlando e Benvenuti e scaricato a favore di Beppe Pericu. Ma la motivazione può davvero essere subdolamente letta in tanti sensi, cogliendone le diverse sfumature: “ Nonostante la sua natura pretorile, stimabile e un po’ presuntuosa la sua pretesa di indipendenza. Cattivo nell’antagonismo, tanto quanto era stato fiducioso prima”. Come voler ribadire che la politica non è cosa da magistrati e tantomeno da pretori più o meno d’assalto. Con quel che ne cantava Fabrizio De Andre, poi…..

Alfredo Biondi era così, e così mi piace ricordarlo. Prima di morire, l’amico e compagno di avventure Gustavo Gamalero mi aveva confidato che era un po’ preoccupato per Alfredo. Lo avevano visto in occasione del suo novantesimo compleanno, ma gli sembrava troppo incline a chiudersi in se stesso, come in una sorta di depressione. Insieme alla moglie avevano chiuso la casa di via Cabruna per andare ospiti in un istituto. E per preservarlo gli avevano taciuto, recentemente la morte prematura del figlio Carlo, anche lui avvocato. Uomo stimabile e buono, Alfredo, con il gusto tutto toscano del parlar franco. Tanto che al termine di quell’intervista di 22 anni fa mi confidò: “A volte  per amor di chiarezza e di una battuta mi sono guastato anche qualche amicizia”.

Paolo De Totero

Paolo De Totero

Quarantacinque anni di professione come praticante, giornalista, vicecapocronista, capocronista e caporedattore. Una vita professionale intensa passata tra L’Eco di Genova, Il Lavoro, Il Corriere Mercantile e La Gazzetta del Lunedì. Mattatore della trasmissione TV “Sgarbi per voi” con Vittorio Sgarbi e testimone del giornalismo che fu negli anni precedenti alla rivoluzione tecnologica, oggi Paolo De Totero è il direttore del nostro giornale digitale.