Processo “Alchemia”: c’è tanta Liguria negli oltre 300 anni di carcere richiesti dal PM di Reggio Calabria

Palmi (RC) – Per capire la nostra storia, per capire tutte le storie di mafia, bisogna tornare indietro nel tempo. E per strada si incontrano le guardie e il ladri, gli uomini d’affari e le loro aziende, a volte coinvolte in traffici non proprio trasparenti, altre volte vittime del malaffare.
Ma andando indietro nel tempo si capiscono anche le relazioni, le connivenze, gli intrighi e spesso gli omicidi. Molti fatti sembrano casuali e slegati ma col tempo e con un lungo lavoro di ricostruzione compongono un quadro dove vengono dipinti i legami stretti tra due terre lontane, ma solo in apparenza. La Calabria e la Liguria.

Dicevamo che la nostra storia inizia nel 2005, a dicembre, quando il Centro Operativo della D.I.A di Genova avviava l’operazione “Continente”dopo le dichiarazioni fatte alla Casa della Legalità dall’ex moglie di Vincenzo Mamone, fratello di Gino Mamone, titolare di Eco.Ge, che si occupava di bonifiche. Dall’attività investigativa emersero quanto fossero stretti i legami con la cosca dei “Raso-Gullace-Albanese” che operava nel Ponente ligure nell’ambito del movimento terra, e la realtà che emergeva, in quei tempi di negazionismo dove tutti immaginavano ma nessuno parlava, era fatta di intestazioni fittizie, riciclaggio, condizionamento del voto, appalti truccati.
Gli inquirenti avevano trovato un filo da tirare che avrebbe srotolato anni di imbrogli, di denaro sporco, di relazioni imprenditoriali malate. E da questi rapporti tra Calabria e Liguria prese piede l’inchiesta “Terra di Siena”, sempre del Centro Operativo D.I.A. di Genova, che metteva in luce i rapporti tra la cosca originaria di Cittanova, quella dei “Raso-Gullace-Albanese” e la cosca dei “Morabito-Palamara-Bruzzaniti”.

Iniziata nel 2008 e terminata nel 2011, da questa inchiesta emersero le attività dei Mamone di Genova  e dei Raso di Biella. Come in una trama ben studiata c’era un “amico” candidato alle elezioni europee, e andava sostenuto. Ma le cose vanno fatte bene e come in ogni organizzazione che si rispetti bisogna chiedere “il permesso” a chi ha in mano il bastone del comando. E così il permesso fu dato da Carmelo Gullace.

Volete sapere il nome del candidato? Impossibile, non si saprà mai, perchè se il mondo è pieno di buoni i cattivi sono di più, e così “Terra di Siena” a Genova venne bruciata da una fuga di notizie e archiviata. Niente più intercettazioni, niente più personaggio politico.
Ma chi avesse voglia di leggere 300 pagine delle circa 2.000 dell’indagine “Mammasantissima”, troverà interessante vedere come la cosca “Gullace e Raso” applicasse l’intimidazione per far eleggere in Regione Calabria Antonio Stefano Caridi, risultato poi uno dei componenti della struttura riservata di vertice della ‘ndrangheta. Caridi, nominato poi in Senato, tentò anche di entrare in Commissione Antimafia ma senza fortuna. Di lui ci sono interessanti intercettazioni telefoniche in cui si scambia cordiali auguri, in occasione di una festività, con un noto esponente della ‘ndrangheta, tale Girolamo Raso detto “Mommo”, già condannato all’ergastolo per gli omicidi dei bambini nella faida di Cittanova, e scarcerato per motivi di salute.

Nel Ponente savonese dopo i fari puntati dalla Casa della Legalità su Antonio Fameli e le sue attività, la Procura di Savona con la Squadra Mobile avvia l’inchiesta “Carioca” da dove emergono i rapporti e le cointeressenze della cosca capeggiata da Carmelo Gullace con Antonio Fameli. Tutto ruotava, in quella terra di Loano, attorno ad una sala giochi, il “Casinò Royale”.
Dalle intercettazioni e dagli appostamenti emersero non solo legami tra i due, ma anche l’ennesimo uso di amicizie di Fameli nelle forze dell’ordine per garantirsi l’impunità, ottenere informazioni e assicurarsi l’accoglimento delle istanze dalla Pubblica Amministrazione.

L’allora Procuratore Francantonio Granero trasmetterà queste risultanze alla DDA di Reggio Calabria che avvierà l’indagine “Trent’Anni di Filosofia” con lo S.C.O. di Genova e di Reggio Calabria. Ultimo tassello che faceva emergere, tra l’altro, non solo la cointeressenza dei “Raso-Gullace-Albanese” con la cosca “Parrello-Galiostro” di Palmi, ma anche gli interessi della cosca sui lavori del Terzo Valico e gli affidamenti ottenuti dalle Cooperative emiliane, Coopsette e Unieco.

Queste tre indagini, “Terra di Siena”, “Carioca” e “Trent’anni di filosofia”, sono gli elementi fondamentali per comporre il gigantesco quadro probatorio del procedimento “Alchemia” nel quale finirono sottoposti a misure cautelari anche la moglie di Carmelo Gullace, Giulia Fazzari, e la cognata, Rita Fazzari, finita ai domiciliari insieme al marito Roberto Orlando, che da formali intestatari delle imprese facenti capo a Gullace, contribuivano al perseguimento degli interessi del sodalizio della ‘ndrangheta.
Queste tre indagini sono state anche acquisite agli atti del rito abbreviato di “Alchemia”.

Un pezzo dell’indagine, quello sulla locale di Cavaglià legata alla famiglia Raso, venne stralciato perché oggetto di uno specifico procedimento della DDA di Torino, “Alto Piemonte”, in cui le risultanze delle attività del GICO della Guardia di Finanza trovarono conferma definitiva nel pronunciamento della Cassazione al termine del giudizio abbreviato.

Ma torniamo ad “Alchemia”: una parte degli imputati, tra cui il ligure Fabrizio Accame condannato a 8 anni e 8 mesi, scelsero il rito abbreviato, altri la via ordinaria che sta per concludersi in questi giorni.
Il processo è iniziato a Palmi  il 3 ottobre 2017, quando venivano confermati parte civile la Casa della Legalità, Nino Cento con la cooperativa Zomaro Resort, e infine Rolando Fazzari e Marilena Bribò, tutti assistiti dall’avvocata Maria Stella Morabito.

Un processo lungo, dove i testi del PM hanno ripercorso tutte le risultanze delle tre indagini che hanno composto il quadro dell’accusa. Un processo che ha avuto per Rolando Fazzari, dissociatosi dalle attività della sua famiglia da decenni, gravi ripercussioni lavorative. Forse per convincerlo a non testimoniare, alla Ligurblock è stato veramente fatto di tutto. Cavi elettrici tagliati, tubi dell’acqua tagliati, attrezzature danneggiate, strada interrotta e mai aggiustata. In una sequenza di misfatti che diventa difficile classificare come casuali.
Ma forse la spavalderia degli imputati confermerà la loro colpevolezza: erano talmente sicuri di avere le spalle coperte che non hanno prestato attenzione a quello che dicevano in auto, al telefono e persino in carcere. E ora tutto questo è ben conservato nelle intercettazioni degli inquirenti.

Nel vortice delle fasi processuali, gli uomini della DIA e della Polizia di stato, testi dell’accusa insieme a Rolando Fazzari, hanno descritto al PM Giulia Pantano come erano e sono raccordate le cosche tra Liguria, Lombardia e Piemonte, in particolare per comprendere l’inquadramento storico della famiglia Fazzari e del suo rapporto con i “Gullace-Raso-Albanese”.

Al vertice dell’organizzazione sempre il presunto boss del Nord Ovest, Carmelo Gullace, ma anche “l’avvocaticchio” Giuseppe Raso, già condannato quale capo-locale di Canolo nell’inchiesta “Crimine”. E poi i legami storici con esponenti di peso delle cosche della Locride, quelli con i “Rampino” e con gli “Alvaro” di Sinopoli, nonché ad esempio con il Gruppo Perego coinvolto nell’indagine “Infinito” della DDA di Milano, e con Giuseppe D’Agostino, detto “Pino”, condannato recentemente in via definitiva dalla Cassazione nell’inchiesta “Grillo Parlante” della DDA di Milano sui condizionamenti del voto per le elezioni regionali in Lombardia della Giunta Formigoni.

Nel processo sono entrate anche storie delicate e pesanti come la vicenda di Sebastiano Sorbello, giudice istruttore scampato alla morte, o quella di Guido Cucco, Vice Procuratore Generale alla Cassazione che andò a Torino per chiedere notizie sulla posizione di due persone, Elio Gullace e Rocco Prenestì, arrestate perché in possesso di una pistola. Quando Carmelo Gullace fu arrestato alla vigilia del suo matrimonio, Cucco lo definì una brava persona la cui posizione processuale andava valutata con cautela. Nonostante la segnalazione al Consiglio Superiore della Magistratura la vicenda venne archiviata.

Nei prossimi giorni, il primo grado di “Alchemia” si chiuderà. La sentenza è attesa entro il 19 luglio, data della scadenza dei termini per la carcerazione preventiva disposta dal GIP con l’ordinanza del 19 luglio 2016.

Nella requisitoria pronunciata il 1° luglio, il PM ha chiesto oltre 300 anni di carcere. Queste le richieste di condanna dell’Ufficio della Procura di Reggio Calabria rappresentato in aula dai Sostituti procuratori Giulia Pantano e Gianluca Gelso, e dal Procuratore aggiunto Gaetano Paci.

 

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Fabio Palli

Spirito libero con un pessimo carattere. Fotoreporter in teatro operativo, ho lavorato nella ex Jugoslavia, in Libano e nella Striscia di Gaza. Mi occupo di inchieste sulle mafie e di geopolitica.