Se nasci a San Luca, a Bovalino, a Rosarno o a Locri, se hai un nonno ‘ndranghetista, un padre in carcere, un fratello ammazzato, e una madre che cerca vendetta, il tuo destino è segnato.
Perché ci sono posti dove la ‘ndrangheta si eredita e dove l’idea dello Stato è lontana e nemica. Qui si vive in trincea, nella convinzione di rappresentare un’altra nazione fatta di codici antichi, onore e leggenda.
I tre cavalieri
E sull’origine mitica della ‘ndrangheta si racconta una storia, quella dei tre cavalieri spagnoli Osso, Mastrosso e Carcagnosso.
Siamo nel 1600. I tre, per vendicare l’onore della sorella stuprata, hanno ucciso un uomo e per questo sono scappati dalla Spagna e si sono rifugiati sull’isola di Favignana, al largo di Trapani. Qui rimangono nascosti 29 anni per mettere insieme le regole di una società segreta simile alla Garduña, cui appartenevano.
Infine Osso si voterà a San Giorgio e fonderà Cosa Nostra restando in Sicilia. Mastrosso, devoto alla Madonna, organizzerà la Camorra in Campania. Carcagnosso, con l’aiuto di San Michele Arcangelo, raggiungerà la Calabria e sarà il padrino primordiale della ‘ndrangheta.
Tutti legati per sempre da un delitto d’onore e da un filo rosso fatto di violenza e omertà.
La ‘ndrangheta è aria che si respira
Nati con cognomi che pesano, i figli delle ‘ndrine sono educati a uno strano senso dell’onore e si illudono di essere uomini giusti, valorosi e migliori, e per questo sono pronti a uccidere.
Negli ultimi 25 anni il Tribunale di Reggio Calabria ha processato più di 100 minori per reati di criminalità organizzata e più di 50 per omicidio e tentato omicidio.
“Si tratta di ragazzi che appartengono tutti alle famiglie storiche del territorio e che adesso, ormai maggiorenni, o sono al carcere duro, o sono latitanti, oppure sono stati uccisi nel corso delle faide locali” perché il legame di sangue li obbliga a imbracciare un fucile e a continuare la guerra.
A spiegarci le dinamiche di una vita che sembra decisa in partenza è Roberto Di Bella, il giudice del Tribunale per i Minorenni di Reggio Calabria, ora trasferito a Catania, che cerca di dare ai giovani un’alternativa alla mafia, “altrimenti si continueranno a processare gli stessi cognomi, per gli stessi reati”.
Perché è questo il meccanismo con cui le ‘ndrine mantengono il potere: l’indottrinamento criminale dei figli minorenni che vengono educati a sparare e tacere.
E così crescono conoscendo soltanto una faccia del mondo, dove il carcere è una medaglia da appuntarsi sul petto come fosse un attestato di professionalità.
E allora spacciano. E ammazzano. E chiedono il pizzo.
Perché togliere i figli ai mafiosi?
“Per interrompere questa spirale perversa, culturale ancor prima che malavitosa, nel 2012 abbiamo deciso di adottare dei provvedimenti civili di decadenza o limitazione della responsabilità genitoriale dei boss”, continua Di Bella che poi chiarisce che l’azione del tribunale non è preventiva, “noi non facciamo epurazione etnica in nome di un’ideologia di Stato” ma “interveniamo caso per caso nelle situazioni di concreto pregiudizio per i ragazzi, quando l’interesse preminente del minore non è tutelato dalla famiglia”.
Quello che cerca di fare questo giudice di frontiera allontanando i figli dei mafiosi dai parenti, è combattere per cambiare la mentalità: “Vogliamo dimostrare ai ragazzi che esiste un mondo diverso da quello cui sono abituati e che il carcere è un luogo da evitare a tutti i costi”, ci dice aggiungendo che in effetti “questi ragazzi non sanno neanche che un’alternativa esiste, perché appartenere alla ‘ndrangheta non è percepito come un disvalore ma è un fatto intrinseco all’educazione familiare, è aria che si respira”.
I “duemila” della mafia
Di solito è un cantante. O una stella del grande schermo. O magari un calciatore. Ma non a Locri. Qui il ragazzino quindicenne sogna di diventare il boss.
Succede davvero, nel 2017, in una scuola media della città dove la figlia del capomafia locale si è vista consegnare da un compagno di classe una lettera per il padre con una richiesta di affiliazione. A svelare ancora una volta che la ‘ndrangheta non vive solo della forza di intimidazione ma esercita sui “duemila” un fascino pericoloso, sono state le intercettazioni dell’operazione della DDA di Reggio Calabria, “Mandamento Jonico”.
“È nella crisi delle politiche sociali, delle famiglie e della scuola che si alimenta il mito mafioso. I ragazzi vedono nelle mafie una parvenza di identità che non trovano altrove”, chiarisce Di Bella spiegando che esiste una spinta da parte di leve giovanissime che tendono ad affiancarsi se non addirittura a sostituire la vecchia generazione criminale.
Nel 2018 gli agenti del Commissariato di Reggio Calabria hanno arrestato il giovane nipote di un elemento della cosca Tegano per aver aggredito un coetaneo che non riconosceva la sua autorità criminale né il suo “casato”.
Vite rubate alla ‘ndrangheta
Togliere i figli ai mafiosi è l’unico modo per salvargli la vita “e quando le madri si accorgono che la logica non è punitiva ma di tutela, non si oppongono più, nella speranza di sottrarli a un destino al quale loro stesse non hanno la forza di opporsi”.
Sono donne provate dai lutti, dalle carcerazioni, “vedove bianche” le chiama Di Bella, sposate a 18 anni per ratificare sodalizi criminali con un uomo sconosciuto che poi è finito all’ergastolo o è morto ammazzato.
E quando si rendono conto che lo Stato le può aiutare, che si interessa di loro, “allora vengono qui da noi, per i loro figli ma in fondo anche per sé stesse, per coltivare una speranza di riscatto”.
Alcune “si sono pentite proprio qui, su quella sedia. Ci hanno chiesto di portarle via dalla Calabria e noi le facciamo partire insieme ai ragazzi”.
È così che il meccanismo della ‘ndrangheta, questa mafia dove la famiglia criminale si sovrappone a quella di sangue e quando parli tradisci tuo padre e tuo fratello, finalmente si rompe.
“Un detenuto al 41-bis mi ha detto giudice, se avessi avuto io l’opportunità che sta dando alla mia famiglia forse non mi troverei nel luogo di sofferenza dove sono adesso, grazie perché vi siete presi cura di mia figlia”.
Simona Tarzia
Sono una giornalista con il pallino dell’ambiente e mi piace pensare che l’informazione onesta possa risvegliarci da questa anestesia collettiva che permette a mafiosi e faccendieri di arricchirsi sulle spalle del territorio e della salute dei cittadini.
Il mio impegno nel giornalismo d’inchiesta mi è valso il “Premio Cronista 2023” del Gruppo Cronisti Liguri-FNSI per un mio articolo sul crollo di Ponte Morandi. Sono co-autrice di diversi reportage tra cui il docu “DigaVox” sull’edilizia sociale a Genova; il cortometraggio “Un altro mondo è possibile” sul sindaco di Riace, Mimmo Lucano; “Terra a perdere”, un’inchiesta sui poligoni NATO in Sardegna.