Ottobre 1970: l’alluvione di Genova tra ricordo, cronaca e retorica

Genova – Sono passati 50 anni. Le alluvioni sono fatti umani naturali. Violenti, tragici e che risvegliano il desiderio di capire, di sapere perchè certe cose accadano. Le alluvioni sono emergenze generate da altre emergenze a cui non si è mai voluta dare una risposta.
Ironia della sorte, quel 1970 dichiarato dal Consiglio d’Europa “Anno della Natura” vide la Liguria primeggiare per gli incendi dolosi sul Monte di Portofino, per le acque inquinate del mare e infine per l’alluvione.
I numeri di quell’alluvione furono tragici. 35 morti, oltre 100 feriti, 2.000 sfollati e 15 miliardi di lire per i guasti alle strade provinciali e comunali. Per non parlare dei danni alle attività economiche e agli stabilimenti Italisider di Cornigliano e Campi.

Per gentile concessione dell’Archivio Leoni

La speculazione

Negli anni sessanta l’Italia ha visto una rapida trasformazione delle proprie attività produttive. Il progressivo abbandono in massa delle campagne ha modificato nella sostanza il nostro concetto di territorio. Passando da abitudini semi rurali a una società di consumo, chi abitava l’Appennino e le campagne ha cambiato il proprio habitat. Ma l’errore è stato quello di confondere il territorio rurale, manipolato per dare prodotti e quindi bisognoso di manutenzione, in semplice “natura”. Un territorio agrario abbandonato è uno dei punti più fragili in assoluto. Se poi è situato in zone montuose come il nostro Appennino diventa anche pericoloso. Quindi l’agricoltore, se è vero che “piegava la natura” per trarne il sostentamento, in realtà   con il territorio ci conviveva facendo quella manutenzione necessaria per renderlo stabile. Il passaggio da una civiltà semirurale a quella attuale ha portato a consumare il suolo come fosse un qualsiasi prodotto.
Il resto è ciò che abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni: abusi edilizi, speculazioni edilizie, rivi tombati, alvei dimenticati.

Cosa si sapeva

Nell’articolo del gennaio 1969 “Genova: patologia di uno sviluppo” in L’Esperimento si poteva leggere:  “Nel dopoguerra i genovesi hanno investito nell’edilizia quasi 600 miliardi di lire (contro i 700 investiti nell’armamento di navi), attirati dal flusso di una proliferazione di caseggiati in gran parte non rispondenti ai reali bisogni degli abitanti, progettati unicamente per sfruttare ogni area. Nel 1952 il ritmo era di 10.000 vani all’anno e nel 1957 di 30.00, nel 1965 di 56.000. Nel 1967 si è scesi a 35.000, avendo però in serbo progetti per 67.000 nuovi vani. Sempre nel 1967, secondo un’inchiesta fatta dagli stessi costruttori e tenuta segreta, più di 35.000 abirtazioni erano invendute, e fra esse ben 19.000 erano nuove”.

Che Genova fosse colonizzata dalle installazioni industriali era evidente. Il cuore industriale della città era nella sua periferia a Ponente, allora degradata e inquinata. Ma se è fin troppo facile andare a ritroso per trovare le responsabilità della situazione attuale, è invece complicato ricostruire la pianificazione urbanistica di quegli anni ’70 perchè non si conoscono fino in fondo l’entità delle superfici strappate al terreno libero e le volumetrie che si sono sovrapposte dagli anni ’50 fino agli anni ’70. Ma le responsabilità degli urbanisti sono evidenti in quello che ci circonda, che vediamo tutti i giorni. L’espansione urbana si basa sulla distruzione sistematica del territorio, come scriveva Alexander Mitscherlich ne “Il feticcio urbano”.
Gli urbanisti, in sintesi, si occupavano del paesaggio e non del territorio.

Quella alluvione non solo mise in discussione il “ritardo” culturale delle nostre amministrazioni rimaste ancorate a modelli di sviluppo economico e sociale non al passo con i paesi più evoluti, ma rappresentò un indubbio fallimento della politica che ha governato il territorio attraverso la burocrazia e una miriade di enti inutili. Per fare un esempio: il Leira e il Bisagno per lo Stato non esistevano. Fino al quei giorni di ottobre del 1970.

Il Ponente

Il Leira, corso d’acqua non classificato e quindi non sottoposto ad osservazione scientifica, esonda all’altezza di via Lemerle, a Voltri, alle 19.00 circa del 7 ottobre 1970. Il livello dell’acqua raggiunge i 4 metri. Il Leira e il Cerusa scorrono nello spartiacque appenninico più vicino al mare per cui il loro corso è molto breve ma in forte pendenza. Sotto l’impeto di queste acque, nella zona di Voltri moriranno 25 persone.
Anche nel resto del Ponente i danni sono ingenti. Lo stabilimento Italsider a Cornigliano è allagato e l’acqua arriva a un metro di altezza. La stessa sorte per la sede della ex San Giorgio.
La fitta rete dei negozi non esiste più.

La Valpolcevera

Il Polcevera, classificato come fiume di III classe secondo una legge del 1904 e col controllo della stazione idrologica del Genio Civile dal 1961, raccoglie le acque di una corona montuosa molto ampia. L’8 ottobre del ’70 alle 13.00 circa esonda il Secca, suo affluente, che allaga Bolzaneto e san Quirico. Mezz’ora dopo lo stesso Polcevera esce dagli argini tra Campi e la passerella del Campasso. Il Rio Torbella sospinto dal Rio Maltempo mette sott’acqua Certosa. Entro la mezzanotte le case di Fegino sono già allagate fino al primo piano.

La Valbisagno

Il Bisagno non era classificato. Dopo la disastrosa alluvione del 1970 è stato proposto di III categoria. A La Presa di Bargagli c’era la stazione idrologica del Genio Civile. Sono molte le piene del Bisagno a partire dal 1404. L’8 ottobre del 1970 straripa alle 14.45 a Ca’ de Pitta e dopo un’ora l’onda di piena raggiunge piazzale Kennedy. Nel suo corso travolge tutte le passerelle e demolisce il ponte di Sant’Agata. Le auto parcheggiate in Lungo Bisagno Istria e Lungo Bisagno Dalmazia finiscono nel fiume  trascinate dalla corrente. Borgo Incrociati ha il fango fino ai primi piani delle abitazioni. Alle 14.30, mezz’ora prima del Bisagno, erano straripati il Trensasco e il Veilino. Stessa sorte per il rio Torbido, Molassana, Maggiore, Morchi, Nicola, Preli e Montesignano.

La fanfara della retorica

Raccontare un’alluvione è da una parte semplice. Il colpevole è sempre il fiume, la pioggia, “le bombe d’acque”, una sfortunata coincidenza di fattori.
Fatta la conta dei morti e dei danni, recepito il cordoglio di tutti, parte la fanfara della retorica.
In quei giorni di catastrofe, che di naturale aveva poco, emerse con vigore la presenza dei giovani. Allentata l’autorità familiare vista la situazione d’emergenza,  si ritrovarono compatti per le strade a lavorare per rimettere in sesto la città. Spalavano dal mattino alla sera, vigilavano sugli incroci, erano parte attiva di una società che li aveva definiti cappelloni, drogati e spesso sfaccendati. Il tessuto sociale formale, messo in discussione dalle proteste del ’68 appena passato, era stato invaso da una marea di ragazzi che facevano poche chiacchiere e tanto lavoro. Ribadivano con la semplice presenza, senza clamore e spontaneamente, di essere parte integrante di una società che li voleva asservire ma non ascoltare.

Creare eroi e miti

Politica e informazione crearono gli eroi, i miti dell’alluvione. E quei giovani furono inchiodati nella retorica che trovò nei titoli dei giornali il suo naturale presidio. Su tutti il titolo del  settimanale Gente: “Mille storie d’amore e d’eroismo nella tragica notte dell’alluvione”.
Rimanere in superficie, produrre eroi, sarebbe poi servito per far arrivare dal governo centrale i quattrini per affrontare l’emergenza per trasformare una tragedia in un’opportunità. Facendo poche riflessioni e approfondimenti.
La solidarietà, l’appartenza, lo spirito di concordia, la fedeltà, la lealtà, sono termini talmente positivi da non poter essere contestati. E da quel frasario furono travolti i giovani ma anche gli operai che da forza di opposizione “ai padroni” si trovarono a difendere il bene comune fianco a fianco dei dirigenti. Perchè “tutti sanno quanto valgono i lavoratori liguri conosciuti per l’alta specializzazione e l’attaccamento al lavoro“. E non mancarono articoli con “Gli operai hanno dimostrato che non sono nemici delle aziende ma che credono nell’azienda quanto i padroni. Grazie signori operai
Parole che hanno cinquant’anni ma che vengono aggiornate e rinfrescate ogni volta che servono, quando siamo in emergenza e bisogna trovare eroi per non cercare le cause.

fp

 

Fabio Palli

Spirito libero con un pessimo carattere. Fotoreporter in teatro operativo, ho lavorato nella ex Jugoslavia, in Libano e nella Striscia di Gaza. Mi occupo di inchieste sulle mafie e di geopolitica.