Processo “Aemilia”, le condanne reggono in appello: oltre 700 anni di carcere per 91 uomini delle cosche

Cadono soltanto due accuse di associazione mafiosa, per il resto la Corte di Bologna ha confermato l’impianto del primo grado. E stamattina è scattata la confisca dei beni per Antonio Muto

Bologna – Con i suoi 118 imputati è uno dei più grandi processi contro la ‘ndrangheta del Nord Italia che, dopo undici mesi di udienze, si è concluso giovedì con la lettura della sentenza nell’aula bunker del carcere della Dozza, a Bologna, che ha confermato la presenza di una potente cosca insediata sul territorio emiliano e operativa tra Reggio Emilia, Parma, Modena e Piacenza.

Tra i condannati anche la famiglia dell’ex azzurro Iaquinta

91 condanne e 27 tra assoluzioni, proscioglimenti e prescrizioni. È questo il bilancio del dispositivo andato in aula dopo sei ore di camera di consiglio.
Tra le accuse cadute in appello ci sono quelle contro Francesco Lomonaco e Gabriele Valerioti. Per loro la Procura Generale aveva chiesto una condanna per 416-bis, cioè l’associazione di stampo mafioso. Sconto di pena per Gaetano Blasco che ha avuto 22 anni e 11 mesi contro i 25 anni e sei mesi chiesti dall’accusa. Assolto l’imprenditore siciliano Bruno Milazzo che la Corte ha ritenuto “in buona fede”.

Dichiarati colpevoli, invece, Iaquinta padre e figlio che si beccano rispettivamente 13  e due anni. Il calciatore, campione del mondo nel 2006, è stato condannato con la condizionale per possesso di armi, mentre per il papà è scattata l’associazione mafiosa.

Tra i nomi alla sbarra quello di Michele Bolognino, l’unico dei sei boss che aveva scelto il rito ordinario, e che ha preso 21 anni e 3 mesi. Poi Augusto Bianchini, l’imprenditore di Modena accusato di essersi rivolto alla ‘ndrangheta per la gestione dei cantieri post terremoto del 2012, imputato insieme alla moglie e al figlio, che è stato condannato a 9 anni.

Reggono alla verifica in appello anche le accuse per le famiglie Vertinelli e Muto, considerate autonome rispetto alla casa madre dei Grande Aracri di Cutro. Per loro il presidente della Corte d’Appello, Alberto Pederiali, ha confermato: 17 anni e 4 mesi a Palmo Vertinelli, 16 anni e 4 mesi al fratello Giuseppe, e 4 anni a testa ai 3 figli. E poi 12 anni a Luigi Muto, 10 anni e 8 mesi all’Antonio nato nel 1955, 11 anni e 4 mesi all’Antonio del 1978, 8 anni e 6 mesi a quello nato nel 1971.
Per gli avvocati difensori dei 93 condannati, ora l’ultima spiaggia è la Cassazione.

E per Antonio Muto arriva la confisca dei beni

È scattata stamattina la confisca dei beni per Antonio Muto, il 65enne arrestato il 28 gennaio 2015 insieme ad altre 202 persone nell’ambito dell’operazione”Aemilia” e detenuto nella Casa Circondariale di Reggio Emilia.
“La figura di Muto – scrive la DIA bolognese -, assume particolare rilievo nella diretta partecipazione all’attività di raccordo del gruppo criminale con personaggi del mondo politico locale, che ha rappresentato uno degli snodi fondamentali sia per il rafforzamento e l’espansione economica del sodalizio, sia per l’influenza che la parte politica avrebbe potuto esercitare, al fine di contrastare le iniziative antimafia poste in essere dalle Istituzioni”. Anche per questo il Tribunale di Reggio Emilia ha stabilito nei suoi confronti 5 anni di sorveglianza speciale da eseguire una volta che avrà scontato la sua pena.

Il sequestro di stamattina ha riguardato 75 immobili, tra cui una villetta di pregio a Reggio Emilia, capannoni industriali e terreni sia in Emilia Romagna che in Calabria, una società immobiliare e tredici mezzi commerciali e autovetture, oltre a svariati rapporti bancari accesi presso numerosi istituto di credito. Il tutto per un valore stimato per un valore complessivo stimato intorno ai dieci milioni e mezzo di euro.

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Simona Tarzia

Sono una giornalista con il pallino dell’ambiente e mi piace pensare che l’informazione onesta possa risvegliarci da questa anestesia collettiva che permette a mafiosi e faccendieri di arricchirsi sulle spalle del territorio e della salute dei cittadini.