Se anche l’Italia sceglie la repressione
In questi giorni, in queste ore, in Italia il nome maggiormente circolante è quello di Patrick Zaki, l’attivista per i diritti umani egiziano, studente a Bologna, incarcerato dalla polizia del regime di al-Sisi lo scorso 7 febbraio 2020. Un anniversario triste, che ha riportato sulle prime pagine dei giornali la vicenda sua, quella ancora irrisolta di Giulio Regeni, e attraverso queste storie, il pessimo stato di salute dei diritti umani e politici, al di là del Mediterraneo e nel mondo fuori dai nostri confini.
E se tutti in queste ore chiedono giustizia e il rispetto dei diritti dell’uomo, ancora una volta l’opinione pubblica italiana dà prova della sua presbiopia e della sua coscienza selettiva. E dai vari Saviano e Gramellini di turno arrivano gli strali per Egitto, Turchia, Russia e chi più ne ha più ne metta: tutto giusto, ma tutto dannatamente esotico.
L’Egitto delle prigioni politiche, infatti, è più vicino di quanto si possa pensare: lo scorso 17 settembre la Digos di Torino ha prelevato dalla propria abitazione l’attivista No Tav Dana Lauriola, per farle scontare due anni di prigione presso il carcere Le Vallette del capoluogo piemontese. La donna, una dei portavoce del movimento politico che da decenni si batte contro la grande opera, ma anche contro un modello di sviluppo e di gestione della cosa pubblica, ha visto confermata in Cassazione la sua condanna per la mobilitazione del 2012, organizzata a un casello dell’autostrada Torino-Bardonecchia.
Ma cosa ha fatto di così terribile per finire dietro le sbarre 8 anni dopo i fatti?
Ha protestato, ha parlato con un megafono ribadendo le ragioni della manifestazione (in quei giorni uno degli attivisti era in coma a seguito di una folgorazione causata dalla corrente ad alta tensione ‘presa’ su un traliccio usato per scappare da una carica della polizia) e insieme ad altri attivisti ha bloccato con il nastro adesivo l’accesso ad alcuni tornelli del casello, facendo passare le auto senza pagare. Un danno che la concessionaria autostradale calcolò complessivamente in 25 mila euro. Spiccioli. Insieme a lei sono state denunciate altre undici persone, poi tutte condannate a pene variabili tra gli uno e i due anni di detenzione, per 18 anni di carcere in tutto.
Prima dell’arresto, i suoi legali chiesero misure alternative alla detenzione, respinte dal tribunale di sorveglianza di Torino. Le motivazioni di questo diniego, considerato che l’accesso a queste misure è quasi una prassi nei casi di reati minori e di imputato incensurato, come era Dana all’epoca, sono state tutte politiche, e motivate “dal mancato pentimento” rispetto all’attivismo No Tav e, si legge in un comunicato di Amnesty International, per “la sua scelta di risiedere a Bussoleno”, luogo che la esporrebbe, secondo il documento legale, al “concreto rischio di frequentazione dei soggetti coinvolti in tale ideologia (No Tav)” e dove “potrebbe proseguire la propria attività di proselitismo e di militanza ideologica”.
Provvedimento inaccettabile e inspiegabile
Sulla vicenda si è anche espressa l’Associazione Nazionale Giuristi Democratici, che ha bollato il provvedimento del Tribunale di Sorveglianza come “inaccettabile e inspiegabile” e ha criticato le motivazioni alla base della decisione.
Queste ultime, hanno ricordato i Giuristi Democratici, “si basano su due aspetti principali: il fatto che Dana non abbia preso le distanze dal Movimento No Tav, (quasi che anche solo la simpatia fosse sintomo di pericolosità) e la circostanza che il luogo della sua abitazione sia in Valsusa, all’interno, perciò, dei territori in cui vive l’opposizione alla linea ferroviaria Torino-Lione”.
Dana pericolosa socialmente
Quindi, “ciò che fa ritenere Dana pericolosa socialmente, al punto di doverla costringere a scontare in carcere la pena, pur essendo incensurata prima di questa condanna, è il fatto di non aver abdicato ai suoi ideali e di aver scelto come luogo di residenza proprio quella Valle ritenuta in sé pericolosa per il movimento che ospita ormai da 30 anni”. Poi l’invito al tribunale di “tornare a considerare la pena un istituto volto alla rieducazione e al reinserimento sociale del condannato, come disposto dall’articolo 27 della Costituzione ed a rammentare il principio di concreta offensività della condotta, almeno in collegamento con la residua pericolosità del condannato. Principi che nel caso di Dana Lauriola non appaiono minimamente rispettati”.
Dana non è Zaki né tantomeno Giulio Regeni. E l’Italia non è l’Egitto.
Ma le ingiustizie, come i morti, non si controbilanciano, si sommano: e allora il triste anniversario di queste ore poteva essere un’occasione per guardarci un pochino allo specchio e osservare quanto la nostra democrazia stia invecchiando più rapidamente di quanto potessimo credere.
Errico Pimentel
Redazione del quotidiano digitale di libera informazione, cronaca e notizie in diretta