Gli angeli del ciclostile

Angeli, vergini, sante

All’inizio furono “gli angeli del ciclostile”, parafrasando i famigerati “angeli del focolare”. Non a caso angeli, sui quali la questione del sesso o di genere è da sempre aperta. Ma pur sempre con qualche indizio, a giudicare dai nomi – angeli o arcangeli che siano – che farebbe propendere la bilancia dalla parte dei maschietti… Michele, Gabriele, Uriele, Raffaele, Raguel, Zarachiel e Remiel. Sono solo due quelle dichiaratamente femmine, Laila, angelo del concepimento, secondo i trattati mussulmani e Anaihita, angelo infuocato associato all’acque e ai miti persiani. Insomma per la parità di genere bastino i santi e le sante. Dai martiri alle vergini. Spiega un articolo comparso sul sito “donne per la chiesa” con il titolo “La chiesa, le donne e il culto della verginità”.

Il culto della verginità non si ferma a Maria. Si estende anche alle donne sante

Nel calendario liturgico, che elenca i giorni di festa dell’anno della chiesa, esiste una distinzione impressionante tra quasi tutte le sante e le loro controparti maschili. Con poche eccezioni, le sante femminili sono classificate come Vergini. La grande Caterina da Siena è descritta prima come Vergine, e solo in seconda battuta come Dottore della Chiesa, anche se quest’ultimo è uno dei più alti riconoscimenti che un santo possa ricevere. Sant’Agata è elencata prima come Vergine e poi come Martire, anche se il martirio è la massima categoria di santi. La povera Santa Scolastica è descritta semplicemente come Vergine. In ogni caso, sia essa religiosa o laica, la verginità della santa è considerata almeno tanto significativa quanto il suo martirio o il suo zelo, o addirittura il suo status di dottore della Chiesa.

Nessun maschio vergine

Lo stesso non si applica agli uomini. Da nessuna parte nel calendario liturgico si trova un santo maschio descritto come vergine. A seconda dell’individuo, è descritto come sacerdote / vescovo / papa / religioso / missionario / martire / apostolo / dottore della Chiesa, o una combinazione di questi, ma mai come vergine. Anche se ha fatto voto di castità e non ha mai fatto sesso nella sua vita, non viene mai chiamato vergine”.

Il cambiamento postsessantotto

Il sessantotto

Poi ci fu il Sessantotto. Anzi la percezione e il cambiamento avvenne proprio a cominciare dal Sessantotto, appunto poco dopo, appunto nell’epoca mitica definita età dell’oro. Quei favolosi anni Settanta.

Racconta Loredana Rossi nella sua tesi sulla questione femminile in Italia:

“Il neofemminismo italiano ha però caratteristiche sue proprie ed è un movimento di grande vivacità. Nasce all’ interno del movimento studentesco del ‘ 68, è animato soprattutto da studentesse, studiose, giornaliste, in una parola intellettuali. La molla che porta alla nascita del neofemminismo è la delusione che molte attiviste del movimento studentesco provano per la bassa considerazione in cui sono tenute dai loro compagni “rivoluzionari”, che riservano loro solo mansioni secondarie ( le universitarie di Trento, uno dei centri più attivi del movimento, constatano amaramente che da “angeli del focolare” sono diventate “angeli del ciclostile”). Gruppi di donne si staccano dal movimento studentesco e formano gruppi autonomi ( per es. a Trento, Il Cerchio spezzato e Lotta femminista)

Contemporaneamente, anche all’ interno dei partiti, molte attiviste mettono in discussione la logica maschilista che domina i partiti, caratterizzata da spirito gerarchico e da desiderio di potere; molte donne escono dai partiti e fondano movimenti autonomi o praticano la cosiddetta doppia militanza, quella del movimento e quella del partito, non senza contraddizioni anche laceranti”.

Quegli ipocriti delle quote rosa

Vabbè storia vecchia, ma anche recente. Comunque ha un bel dire il nostro presidente del consiglio Mario Draghi che “La parità di genere non significa un farisaico rispetto delle quote rosa e che occorre colmare il gap salariale”, messo sotto accusa, lui e i partiti su una presunta questione femminile all’interno della compagine di governo. Un’accusa sventolata dalle donne del Pd, ma con qualche ammiccamento delle colleghe degli altri gruppi tutti insieme appassionatamente al governo. Mica sarà un caso o un paradosso se l’unico partito con una leader di sesso femminile è rimasto fuori dalla compagine governativa. Ma lei raccontano i suoi sostenitori è una con gli attributi.

Storia vecchia, dicevo, utilizzata, di volta in volta più a scopo di propaganda strumentale che altro, anche dai gruppi progressisti della sinistra. Basti guardare andando a ritroso la storia della commemorazione della nostra resistenza, lotta partigiana, o guerra civile che di si voglia.

Le donne dimenticate della Resistenza

Scrive Annalisa Camilli su “Internazionale” il 25 aprile di due anni fa un articolo intitolato “Il ruolo rimosso delle donne nella resistenza”, prendendo spunto dell’incendio che qualche giorno prima aveva distrutto a Vighignolo, frazione di Settimo Milanese, il monumento a Giulia Lombardi, staffetta partigiana uccisa a 22 anni dai fascisti nel 1944: “Si trattava di uno dei pochi riconoscimenti del ruolo delle donne nella resistenza italiana, di solito trascurato dalla storiografia e dalle istituzioni.

70.000 le donne della Resistenza

Secondo alcune stime le donne che hanno partecipato alla resistenza sono state settantamila, ma probabilmente sono molte di più. Tuttavia il loro ricordo è entrato solo recentemente nella storia ufficiale della resistenza italiana. “Dopo la fine della guerra, direi a partire dal 1948, c’è stato una specie di silenzio generale sulla resistenza femminile”, afferma la storica Simona Lunadei, autrice di molti testi sull’argomento tra cui Storia e memoria. Le lotte delle donne dalla liberazione agli anni 80. “Questo perché si cercò di normalizzare il ruolo delle donne, che proprio durante la guerra avevano sperimentato un’emancipazione di fatto dai ruoli tradizionali”, afferma la storica. Uno degli pochi documentari sull’argomento fu quello di Liliana Cavani, Le donne nella resistenza del 1965 e il romanzo L’Agnese va a morire di Renata Viganò pubblicato nel 1949.

L’Agnese va a morire

Il tabù dell’uso delle armi

“A partire dagli anni sessanta, con le lotte per l’autodeterminazione femminile e i cambiamenti profondi in corso nella società, si cominciò a rivendicare un ruolo per le donne che affondasse anche nella storia della repubblica e nella resistenza”.
Nella maggior parte dei casi le partigiane hanno fatto le staffette: portavano cibo, armi, riviste, materiali di propaganda. Rischiavano la vita, torture e violenze sessuali. Ma non erano armate, quindi non si potevano difendere. Molte donne inoltre hanno avuto ruoli di protezione dei partigiani: li nascondevano, li curavano, portavano loro i viveri nei nascondigli, si preoccupavano della loro sopravvivenza. Altre, in numero minore, hanno partecipato direttamente alla lotta armata.

Le staffette

“Non sarebbe stata possibile la resistenza senza le staffette, tuttavia dopo la guerra poche donne chiesero di essere riconosciute come partigiane”, racconta la storica. Si poteva essere riconosciute come partigiane solo se si aveva partecipato alla lotta armata per almeno tre mesi all’interno di un gruppo organizzato riconosciuto. “Se una donna faceva la staffetta difficilmente poteva documentare la sua attività partigiana, questo ha significato che pochissime sono state riconosciute come partigiane e sono entrate nel Pantheon della resistenza” . Poi c’è un altro elemento, secondo Lunadei. “Molte delle donne che hanno partecipato alla resistenza non hanno chiesto un riconoscimento perché hanno dichiarato che sentivano di aver fatto solo il loro dovere”.

Carla Capponi

Per non tacere del tabù dell’uso delle armi: “Inoltre le donne che hanno partecipato direttamente alla lotta armata hanno dovuto affrontare grandi ostacoli nelle stesse brigate partigiane a cui appartenevano. Nel libro in cui raccoglie le sue memorie, Con cuore di donna, Carla Capponi, figura centrale della resistenza romana, vicecomandante dei Gap (Gruppi di azione patriottica), racconta per esempio che i suoi compagni non volevano concederle l’uso della pistola e per questo fu costretta a rubarla su un autobus affollato e anche in questo caso i compagni provarono a sottrargliela.

“Il problema è il tabù delle donne che esercitano la violenza, che ovviamente era molto forte in un contesto culturale tradizionalista come quello italiano. Riconoscere alle donne la possibilità di esercitare la violenza armata avrebbe significato riconoscere un’uguaglianza di genere”, afferma Lunadei. “Le pochissime donne a cui alla fine fu consentito l’uso delle armi hanno sempre raccontato in seguito i problemi che questo creava loro, in termini culturali e pratici”.

Joyce Lussu

I libri delle memorie

E continua nel suo articolo Annalisa Camilli: “Tuttavia a partire degli anni novanta, secondo la storica, le donne che hanno partecipato direttamente alla resistenza italiana, anche con ruoli di responsabilità, hanno cominciato a parlarne pubblicamente e , anche grazie al lavoro di molte storiche, a essere intervistate e a scrivere dei libri e delle memorie. Molte di loro scrissero delle autobiografie tra queste: Libere sempre di Marisa Ombra, Con cuore di donna di Carla Capponi, Portrait di Joyce Lussu, La ragazza di via Orazio di Marisa Musu, Autobiografia di Maria Teresa Regard.
Anche figure importanti come Marisa Ombra, Marisa Rodano, Lucia Ottobrini, Marisa Musu, Carla Capponi, Maria Teresa Regard hanno aspettato gli anni novanta per cominciare a parlare di quello che avevano vissuto”, racconta Lunadei. “La memoria è strettamente collegata alle categorie concettuali del momento storico in cui è espressa. E non si può non fare una riflessione su questo processo anche collettivo che ha permesso a queste donne straordinarie di raccontare le loro storie solo in un determinato momento storico, cioè molto tardi”, spiega la storica. “Solo alla fine della guerra fredda, per esempio, Lucia Ottobrini ha potuto dire la sua avversione per le truppe alleate che avevano bombardato le popolazioni civili facendo molte vittime. Prima ovviamente questa parte del racconto non poteva essere riportata”.

Lucia Ottobrini e Mario Fiorentini

Quella gaffe del Ministro Taviani

Una storia emblematica è proprio quella del riconoscimento al valore assegnato a Lucia Ottobrini. Ottobrini è una figura centrale della resistenza romana, entrò l’8 settembre 1943 nella lotta armata e partecipò direttamente a diverse importanti azioni contro i nazifascisti. Nella primavera del 1944 da capitano diresse una divisione di partigiani che avevano la missione di difendere una centrale idroelettrica dagli attacchi tedeschi. Per questo e altri episodi della resistenza romana nel 1956 fu insignita della medaglia d’argento al valor militare. Si racconta che il ministro della difesa dell’epoca, Paolo Emilio Taviani, mentre le consegnava la medaglia le domandò: “Lei è la vedova del decorato?”.
Insomma, non male come gaffe. E chissà che cosa sarebbe successo se l’episodio fosse accaduto ai giorni nostri. Del resto per Lucia Ottobrini si può parlare di personaggio più conosciuto all’estero che in Patria, fu il presidente vietnamita Ho Chi Minh a riconoscere il valore di Lucia Ottobrini, a lungo impegnata per i movimenti di liberazione anticoloniale. A partire da questo riconoscimento all’estero si cominciò a parlare della sua figura”.

Carla Capponi

Una donna vicecomandante dei GAP

Però passarono ancora molti anni dallo scivolone dell’allora ministro dell’Interno. La Società italiana delle storiche e gli istituti storici della resistenza hanno fatto un lavoro di ricerca importante a partire dalla fine degli anni ottanta, che ha spinto molte protagoniste della resistenza a condividere le loro memorie e a renderle pubbliche. Anche se Le donne che hanno ricevuto medaglie d’oro al valore per le loro azioni durante la resistenza sono state solo diciannove.

Ricostruire i profili biografici

Irma Bandiera, Ines Bedeschi, Gina Borellini, Livia Bianchi, Carla Capponi, Cecilia Deganutti, Paola Del Din, Anna Maria Enriquez, Gabriella Degli Esposti Reverberi, Norma Pratelli Parenti, Tina Lorenzoni, Ancilla Marighetto, Clorinda Menguzzato, Irma Marchiani, Rita Rosani, Modesta Rossi Polletti, Virginia Tonelli, Vera Vassalle, Iris Versari, Joyce Lussu. E conclude la Lunadei: “C’è un lavoro che ancora andrebbe fatto: dovremmo ricostruire i profili biografici di queste donne – che in molti casi purtroppo sono già scomparse – per permetterci di raccontare quello che finora è stato taciuto. Carla Capponi per esempio non è soltanto una donna coraggiosa che riesce a diventare vicecomandante di una divisione dei Gap, è anche una leader che ha organizzato le proteste delle donne nelle borgate romane durante l’occupazione nazista, ma anche dopo, nelle lotte degli anni cinquanta. Carla Capponi è anche questo e forse anche questo va studiato e capito”.

Marco Bucci e l’esaltazione della schiena dritta

Sembrava aver capito, sino a qualche giorno fa, il sindaco Marco Bucci intervenuto insieme all’assessore regionale alla cultura Ilaria Cavo e al presidente ANPI Massimo Bisca alla cerimonia per ricordare i cento anni di Teresa Mattei, partigiana e madre costituente. “Una donna che ha saputo mantenere la schiena dritta davanti agli avvenimenti che l’hanno colpita”. Ha spiegato con la sua naturale dialettica il sindaco. Pedagogista, politica e dirigente nazionale dell’UDI è stata insiem a Teresa Noce e Rita Montagnana (la prima moglie di Togliatti) l’inventrice dell’uso della mimosa per la festa della donna l’8 marzo. Luigi Longo, non uno qualunque, le chiese se non sarebbe stato più opportuno scegliere le violette, come in Francia. La Mattei gli suggerì la mimosa, un fiore più povero e diffuso nelle campagne.
Avveduto il nostro sindaco, tranne poi rimangiarsi tutto, schiena dritta e quant’altro, sull’ordine del giorno su cui si è scatenato il putiferio con scuse dei consiglieri del Pd che invece di votare contro si erano astenuti e manifestazione della sinistra ieri sera davanti a Tursi. Con tanto di scontri verbali e minacce di fare allontanare il rappresentante di Rifondazione Comunista Giovanni Ferretti dai vigili. Confermando quell’immagine che gli rende il giusto merito al suo ruolo di sindaco decisionista:  “U scindecu cu cria”.

Cristina Lodi

Il PD e la commedia degli equivoci

Quasi una commedia degli equivoci degna di un palcoscenico la vicenda di una settimana fa, con l’astensione del gruppo Pd sull’anagrafe anticomunista, le pubbliche scuse prima della capogruppo Cristina Lodi e poi di alcuni consiglieri non udenti ma regolarmente astenuti. Con la successiva richiesta della testa della povera Lodi, già a suo tempo nominata capogruppo, fra le proteste dei suoi colleghi nonostante il congruo bottino di voti. E maligna comunicazione alla stampa mentre la poveretta cercava di ricomporre la situazione. In modo che non potessero più esserci ripensamenti.
In contenporanea i mal di pancia delle donne del Pd per non essere state chiamate da Draghi su suggerimento del partito. E così insurrezione con raccolta di firme di molte militanti, ex angeli del ciclostile, e solidarietà alla Lodi.
Con nuova esplosione del caso, accuse di sessismo, o molto più semplicemente, dopo il passaggio di consegne al collega Alessandro Terrile, di cui in passato i militanti avevano detto peste e corna come segretario provinciale – tanto che era risultato eletto per il rotto della cuffia – di protagonismo delle correnti. In fondo qualcuno doveva pagare e la Lodi era perfetta nella parte dell’agnello sacrificale.
Poi c’è stato Draghi con quella sua dichiarazione sulla parità di genere farisaica. Eppero’ tutti non hanno potuto fare a meno di riconoscere alla Lodi di essersi impegnata e molto. Anche se a volte il mero impegno può non bastare. Occorre capire che cosa si legge. Ma la cosa vale anche per i consiglieri del suo partito presenti in aula. E anche per quelli della sinistra all’opposizione insieme al Pd. Insomma insospettisce che tutti quanti siano caduti nel tranello. Sessisti e no.

Marta Vincenzi

Vincenzi Vs Pinotti e il terzo gode

Anche se poi andando a ritroso, senza scomodare nuovamente gli angeli del ciclostile, la storia ci dice che nel Pd l’elemento femminile non ha mai fatto registrare enormi consensi. E’ vero che Marta Vincenzi è stata l’unico sindaco appartenente al gentil sesso, resiliente e resistente alle antipatie di Claudio Burlando. E poi finita nei guai per la alluvione. Ma poi tanto per registrare un nuovo caso si presunto sessismo, il risultato delle primarie in cui si affrontarono due lady, la Vincenzi, appunto e Roberta Pinotti, vinse il nobile e algido Marco Doria come un perfetto outsider. Un uomo, insomma.

Paita e Cofferati

E poi, a perenne ricordo, c’è ancora il caso di Raffaella Paita, punita dal fuoco amico di Sergio Cofferati e dei trecento, nonostante si presentasse alle regionali in cui trionfò Toti con la benedizione del potentissimo governatore uscente. Appunto Claudio Burlando. Questione di settarismi e non tanto di sessismo. Del resto la povera Lodi negli equilibri interni non poteva essere che mal digerita, da diligente Renziana, prima di Italia Viva, passata poi alla corte del confermato ministro per le attività culturali e turismo Dario Franceschini. E così si parla degli zingarettiani che ne hanno approfittato per chiudere i giochi, anche in vista di una possibile candidatura contro Bucci, sempre che Bucci si ripresenti e non nutra altre ambizioni.

Giorgia Meloni

Quella donna con gli attributi

Ma è la politica, bellezza. “Sangue e merda” come ebbe occasione di dire a suo tempo un politico di vaglia come Rino Formica, pluriministro, membro di rilievo del Psi durante la segreteria di Bettino Craxi. Quello della “corte di nani e ballerine” che da esperto di lungo corso aveva vaticinato già ai primi di febbraio che Draghi ce l’avrebbe fatta e che i Cinque Stelle lo avrebbero digerito perché nessuna forza in questa fase avrebbe avuto interesse a mettersi di traverso”. Nemmeno quella con il presidente donna con gli attributi. Quella Meloni all’opposizione per lucrare consensi, ad attuare una vigilanza ferrea, da cane da guardia.

Vigilanza Rai, Autorizzazioni e Copasir

Pronta, però, a prendersi tre commissioni come vigilanza Rai, Autorizzazioni e Copasir (quella che fu di D’Alema e si occupa di servizi … e di scheletri negli armadi). Il tutto in vista delle prossime elezioni, pensando alla leadership nel centro destra. Questione di astuzia e conoscenza e, probabilmente, non solo di attributi. Alla faccia degli angeli del ciclostile, delle quote rosa e delle ipocrisie da farisei. Non a caso osserva la mia amica Carla Cerruti commentando la notizia comparsa su La Repubblica di mercoledì secondo cui “Il marito dice no, la coach della nazionale di sci iraniana non può venire in Italia”: “Quando leggo queste cose penso alle quote rosa… e mi sento comunque fortunata… Sì lo so che non abbiamo ancora centrato l’obiettivo ma mi sento fortunata lo stesso. Che brutto animale è l’uomo“.

Paolo De Totero

Paolo De Totero

Quarantacinque anni di professione come praticante, giornalista, vicecapocronista, capocronista e caporedattore. Una vita professionale intensa passata tra L’Eco di Genova, Il Lavoro, Il Corriere Mercantile e La Gazzetta del Lunedì. Mattatore della trasmissione TV “Sgarbi per voi” con Vittorio Sgarbi e testimone del giornalismo che fu negli anni precedenti alla rivoluzione tecnologica, oggi Paolo De Totero è il direttore del nostro giornale digitale.