Il prodotto televisivo SanPa è balzato agli onori delle cronache tv suscitando reazioni contrastanti. La regista Cosima Spender, Gianluca Neri, Carlo Gabardini e Paolo Bernardelli hanno raccolto testimonianze, video, fotografie creando 5 puntate da un’ora circa che parlano di San Patrignano in diciassette anni fino alla morte del fondatore (1995). Cinque stadi dalla nascita del centro fino alla morte di Muccioli, parlando in contemporanea della nascita, crescita, decadenza in un parallelo drammatico con la società italiana e la problematica della tossicodipendenza.
L’arrivo dell’eroina in Italia
Il tema all’inizio della narrazione è quello dell’eroina in Italia negli anni ’60. Un nuovo tipo di droga che si distingue per la sua capacità di isolare l’individuo e portarlo alla morte. Morte prima sociale che fisica, auto annientamento causato dalla marginalità del comportamento dell’assunzione e della sudditanza alla continuazione del rito. Il tutto si cala qualche volta nel vuoto delle periferie; spesso questa volta penetra in tessuti sociali evoluti mettendoli in crisi: famiglie di professionisti, avvocati, uomini di legge, poliziotti, dirigenti di azienda.
Anni di confusione
Questa diviene un’epidemia trasversale che non risparmia nessuno e che forse oggi riconosciamo affondare le radici nella caduta degli ideali e nel difficile periodo degli anni 60-70 del secolo scorso, gli anni delle contestazioni studentesche e poi dei cosiddetti anni di piombo. Anni di confusione, che trovarono terreno fertile in queste generazioni che, messa in discussione la famiglia si limitarono a non riconoscerne l’autorevolezza e a trovare nell’eroina un modo per andare contro la società e le sue contraddizioni.
Muccioli e “Il processo delle catene”
Il 16 febbraio 1985 Vincenzo Muccioli, fondatore di San Patrignano venne condannato in prima istanza per maltrattamenti e sequestro di persona, fatti avvenuti all’interno della comunità. Muccioli era nato il 6 gennaio del 1934. Riminese, di famiglia benestante, era figlio di un ricco assicuratore. Proprietario terriero, vide nel lavoro della terra la soluzione al problema della tossicodipendenza per coloro che si rivolgevano alla comunità per i loro problemi. Quello del 16 febbraio venne definito “il processo delle catene”, per comprendere il tenore della problematica. Poi, nel 1987, la definitiva assoluzione per lui e per tutti gli imputati incriminati.
È bene ricordare che nel 1988 Muccioli aveva 750 persone nella sua comunità, la più grande comunità d’Europa all’epoca di questo genere, nella quale fu sempre aiutato e sorretto dalla compagna, la moglie Antonella. Una famiglia con la passione dell’allevamento dei cani, passione condivisa anche dalla consorte.
L’ampliarsi della comunità consentì il crearsi di uno zoccolo duro di famiglie all’interno di essa che erano uscite dalla tossicodipendenza e avevano iniziato a lavorare collaborando nella gestione dell’istituzione. Nel 1988 erano circa 4000 le persone uscite dalla comunità, a volte con problemi risolti, a volte risolti in parte, a volte nel limbo di una ricaduta nella tossicodipendenza che non voleva dire automaticamente una riammissione nella comunità. Vincenzo Muccioli – questo va detto a chiare lettere – mai affermò di avere la bacchetta magica.
L’autista di Muccioli. Il ricatto e il silenzio comprato
Nel 1994 l’incredibile storia dell’autista personale di Muccioli, Walter Delogu, che lo minacciò di dare in pasto alla cronaca tutto quello che accadeva all’interno della comunità e riuscì ad estorcergli 150 milioni per il suo silenzio, in particolare sulla morte violenta di uno degli ospiti della comunità. A posteriori il patron si giustificò dicendo di avere accettato il ricatto per salvare la sopravvivenza della comunità, che sarebbe uscita distrutta nella credibilità da quelle rivelazioni alla stampa.
Gola profonda
Delogu, gola profonda e uomo di fiducia registrò tutto con un apparecchio portatile e rivelò “… nella primavera del 1992, io faccio quella registrazione. Stavamo andando dalla comunità, e precisamente dall’asilo nido alla gioielleria Arzilli di San Marino… io avevo pulito la macchina usata per portare via il corpo di Maranzano, avevo trovato sangue e capelli, avevo ricevuto confidenze… Avevamo girato mezza Europa per comprare cavalli… avevo presso l’ulcera per lui… Sì, successe una volta quando alla frontiera francese trovarono trecento milioni in auto…”
L’omicidio di Roberto Maranzano.
Fu un contadino di Terzigno (NA), il 7 maggio 1989 nei pressi di una discarica, a trovare il corpo senza vita di Roberto Maranzano di 36 anni, ospite della comunità. Il cadavere era avvolto in una coperta della comunità.
Maranzano era stato trasferito per punizione al reparto porcilaia macelleria. Qui era stato oggetto di pesanti pestaggi che alla fine ne avevano provocato la morte sulla quale la perizia medico-legale non lasciò dubbi. Una compressione mediante apposizione dei piedi sul collo, un’ asfissia meccanica violenta, aveva provocato la sua morte. Il figlio di Roberto Giuseppe, che all’epoca aveva 9 anni è certo che Muccioli sapesse quanto avvenuto. Gli autori dell’omicidio all’epoca furono condannati ma beneficiarono degli arresti domiciliari.
La morte di Vincenzo Muccioli.
Nel 1995, il 19 settembre, la morte di Vincenzo, dopo cinque giorni di agonia. La magistratura di Firenze acquisì la cartella clinica dalla clinica Capitanio di Milano, per comprendere se la morte e il male sofferto da leader della comunità fossero in qualche modo collegabili con gli episodi verificatisi e denunciati all’interno della comunità. Una operazione di acquisizione che provocò reazioni sdegnate ma che venne spiegata all’opinione pubblica con la necessità di verificare se esistesse “un nesso causale fra indagini e malattia”. Alla fine, un certificato di morte di cui, in un clima surriscaldato dalle polemiche non si seppe mai nulla di certo. Aggravamento da epatite, Aids, pesanti asserzioni sullo stile di vita di Muccioli per relazioni omosessuali all’interno della comunità. Al funerale una fila di devoti gridarono dinanzi al corpo che stringeva fra le dita intrecciate il rosario.
“Venite a vederlo, guardatelo e così vedrete se è morto di Aids”
“Venite a vederlo, guardatelo e così vedrete se è morto di Aids.” Dietro il trucco somministrato al corpo era evidente il dimagrimento e la sofferenza delle ultime cento ore, come riportarono i giornalisti presenti. Competenze anatomo patologiche assenti che mai bastarono a dare un giudizio del genere o a negarlo. L’avvocato Taormina impugnò deciso la causa contro la Procura, la quale specificò trattarsi di atto dovuto non conseguente a denuncia o altro.
Mauro Salucci
SALUCCI SUL WEB
Mauro Salucci è nato a Genova. Laureato in Filosofia, sposato e padre di due figli. Apprezzato cultore di storia, collabora con diverse riviste e periodici. Inoltre è anche apprezzato conferenziere. Ha partecipato a diverse trasmissioni televisive di carattere storico. Annovera la pubblicazione di “Taccuino su Genova” (2016) e“Madre di Dio”(2017) . “Forti pulsioni” (2018) dedicato a Niccolò Paganini è del 2018 e l’ultima fatica riguarda i Sestieri di Genova.
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