Milano – Può un giornale economico del calibro del Sole 24 Ore, organo di Confindustria che monitora i mercati, guida gli investitori e giudica l’operato delle società, falsare i propri bilanci? No è la risposta di Nicola Borzi, giornalista economico-finanziario investigativo, per anni in seno al quotidiano di via Monte Rosa, che per tener fede alla deontologia professionale, per primo ha presentato degli esposti contro il proprio giornale e che ieri ha deposto in aula nel processo istituito contro l’ex direttore responsabile e editoriale Roberto Napoletano.
Manipolati i dati di vendita
La storia è nota da un paio d’anni, anche se lo scandalo non ha mai conquistato le prime pagine dei giornali. Napoletano, insieme all’ex presidente Benito Benedini e all’ex amministratore delegato del gruppo, Antonella Treu, avrebbe manipolato i dati di vendita del giornale, soprattutto quelli riferiti alle copie digitali, falsando i valori della società.
Condanne per false comunicazioni
Treu e Benedini hanno scelto di patteggiare nell’ottobre del ’19 una condanna rispettivamente a 1 anno e 8 mesi più 300 mila euro e 1 anno e 6 mesi più 100 mila euro, per false comunicazioni sociali e aggiotaggio informativo (anche la società del Sole 24 Ore è stata sanzionata con 50 mila euro). Roberto Napoletano no. Lui, dichiaratosi innocente, ha scelto il rito ordinario. Che, fra impedimenti e sospensioni dovuti al covid, si sta celebrando ora al Tribunale di Milano.
I presunti successi editoriali
I comunicati trionfanti del Sole 24 Ore sui dati della diffusione negli anni 2013-2016 si sprecavano. Così come le paginate del giornale dedicate ai propri successi editoriali (per altro diffondendo informazioni price sensitive, visto che il gruppo era quotato in borsa). Il numero di copie digitali vendute dal quotidiano rosa salmone surclassava decuplicando i risultati delle maggiori testate nazionali (109 mila contro le quasi 6 mila del Corriere e le poco più di 2 mila di Repubblica), ma secondo il direttore Napoletano non a queste ci si doveva rapportare, bensì ai numeri del Wall Street Journal o a quelli dell’Economist.
Le copie al macero
Il mezzo per raggiungere questi risultati erano le società di diffusione. E qualche trucchetto. Come le numerosissime copie date in omaggio (ma non conteggiate come tali), che poi finivano al macero. Per le copie digitali invece c’era la Di Source Limited, società registrata a Londra e schermata da un trust, dietro al quale si scopriranno persone intranee al gruppo: Massimo Arioli, ex direttore finanziario del Sole, Alberto Biella, ex direttore delle vendite, Stefano Giuseppe Quintarelli, ex direttore area digital, oltre a Stefano Poretti, Giovanni Paolo Quintarelli, Enea Giacomo Mansutti e Filippo Beltramini.
La deposizione
Stando alla deposizione di Biella in aula, la dirigenza del gruppo editoriale non chiese mai la composizione della società prima di affidargli l’incarico, quindi non era al corrente dell’identità dei soci, ma non fece neanche un’indagine di mercato per cercare un competitor che offrisse lo stesso servizio.
La Di Source aveva il compito di vendere il quotidiano digitale ai grandi clienti (banche, assicurazioni etc) secondo elenchi che il Sole aveva fornito loro e che – stando alla richiesta di perquisizione dei locali – “erano fittizi” e “alcuni addirittura creati attraverso un algoritmo”.
Le incongruità nel bilancio
L’intermediazione costava 0,8 centesimi per copia di un giornale che veniva venduto sotto il 30% del suo costo. Risultato: un’operazione costantemente in perdita, che ha causato uno sbilancio di 3 milioni di euro dal 2013 al 2016. Cifra che i soci della Di Source hanno restituito per chiudere il contenzioso.
Così si arriva alla deposizione di Nicola Borzi che, dopo la quotazione in borsa del gruppo Sole 24 Ore avvenuta nel 2007, riceve come tutti i dipendenti, un pacchetto di azioni. E da giornalista economico – finanziario si accorge di alcune incongruità nel bilancio, di ricavi gestionali che continuano a calare nonostante i numeri della diffusione in crescita, senza che le perdite portassero mai a una svalutazione delle poste finanziarie. “Come azionista ho partecipato a tutte le assemblee presentando domande scritte – ha dichiarato – ma ogni volta ricevevo risposte preconfezionate, che non entravano nel merito della questione, riportando sempre i dati della diffusione (copie cedute sotto il 30 % del prezzo) e non quello più preciso della vendita (sopra il 30%).”
Nel 2016 incomincia ad emergere il nome della Di Source: “Dal nome del fiduciario che risulta aver fondato centinaia di società, ne trovo una denominata Fleet Strett. Nell’ottocento Fleet street a Londra era la via sede dei giornali. Lì trovo un nome italiano, quello di Filippo Beltramini, che – una volta contattato – mi conferma il lavoro svolto per il Sole 24 Ore” A quel punto è partito l’esposto al collegio sindacale e al consiglio d’amministrazione, come l’inchiesta della Guardia di Finanza.
Le anomalie nel bilancio
Sempre secondo Borzi le anomalie del bilancio non si limitavano a truccare i dati di diffusione, ma riguardavano anche operazioni infra gruppo. Dal 2009 il costo del lavoro iniziò ad aumentare e a erodere i ricavi. Il costo dei giornalisti, che in parte lavoravano anche per altre testate del gruppo, venne addebitato a queste a seconda del risultato che si voleva ottenere. Una situazione che è stata confermata in aula dall’ex consigliere indipendente Nicolò Dubini, che ha parlato di “una governance inesistente”, di “un consiglio che non gestiva i processi in modo corretto e che aveva per business l’intero conto economico e non le business unit, senza poter capire chi perdeva e chi rendeva”. Altra anomalia denunciata da Dubini era la costante presenza nel Cda di Roberto Napoletano, pur non avendone titolo. “Interveniva come è nel suo carattere. Principalmente sui temi editoriali che però sconfinavano. Non interveniva sui temi di governance, ma di business si.”
Essendo il processo contro Roberto Napoletano, la questione è se l’ex direttore era a conoscenza o promuoveva la falsificazione dei dati. In questo senso su la presenza ai consigli d’amministrazione è una questione importante e la difesa sta puntando sul fatto che il direttore non era l’unica figura esterna ammessa.
Chi non concesse più a Roberto Napoletano di partecipare ai cda fu Gabriele del Torchio, nominato nuovo amministratore delegato per volere dell’allora presidente di Confindustria Squinzi, nel giugno del 2016. La sua permanenza al Sole durò solo 3 mesi. Tre mesi in cui chiuse i contratti con le società di diffusione e portò a bilancio le perdite. Una mossa che costerà a Confindustria 50 milioni di ricapitalizzazione e che porterà alle dimissioni del presidente Squinzi e di 5 consiglieri. “Fu un periodo complesso, con forti pressioni – ha deposto in aula Del Torchio – Appena finito il consiglio mi diagnosticarono un infarto in corso. Dopo un mese un mese rientrai e appresi che il mio nome non era fra quelli da rinominare”. Neanche Dubini venne riconfermato. Mentre Borzi lasciò il Sole nel 2018, quando gli affiancano un capo che si prese tutto il suo lavoro. Oggi è un giornalista free lance.
Chiara Pracchi
Giornalista per passione, mi occupo soprattutto di mafie e di temi sociali. Ho collaborato con PeaceReporter, RadioPopolare, Narcomafie, Nuova Società e ilfattoquotidiano.it.
Per Fivedabliu curo le inchieste da Milano.