Ma l’Iran può produrre nucleare? Secondo gli accordi sì, ma il timore è che poi costruisca armi
A quanto pare il black out dell’impianto nucleare di Natanz, in Iran, dove sabato 10 aprile sono state inaugurate due centrifughe per l’arricchimento dell’uranio, è dovuto a una sabotaggio. Anzi, il responsabile è stato individuato, ha un nome, un’età, ma è riuscito a scappare. Si chiama, Reza Kahimi e ha 43 anni. Di lui si sono perse le tracce. Un po’ come nei film dove la trama va accorciata altrimenti aumentano i costi. La tv di Stato iraniana ha anche dichiarato che il fuggiasco è già uscito dall’Iran. James Bond, levati.
Terrorismo nucleare
A sostenere la tesi del sabotaggio è Ali Akbar Salehi, responsabile dell’Organizzazione iraniana per l’energia atomica, che ha anche invitato l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA) a indagare quello che ha definito un atto di “terrorismo nucleare”.
Dice Salehi: “La Repubblica islamica dell’Iran, pur condannando questo atto spregevole, sottolinea la necessità che la comunità internazionale e l’AIEA affrontino questo terrorismo nucleare e si riserva il diritto di agire contro le menti, gli autori e i cospiratori di questo atto terroristico”. Ha poi aggiunto che “la Repubblica islamica perseguirà seriamente lo sviluppo della sua tecnologia nucleare, da un lato, e si sforzerà di rimuovere le oppressive sanzioni statunitensi, dall’altro, in modo che coloro che hanno ordinato l’atto terroristico non raggiungano i loro obiettivi”.
Il dito puntato su Israele
Nessun responsabile certo per Akbar Salehi. A buttare benzina sul fuoco ci ha pensato il ministro degli Esteri, Mohammad Javad Zarif, che ha puntato dritto il dito contro Israele: “I sionisti vogliono vendicarsi per i nostri progressi sulla strada della revoca delle sanzioni, e hanno già detto pubblicamente che non lo permetteranno. Ma ci prenderemo la nostra vendetta”.
Da parte israeliana il premier Benjamin Netanyahu che l’11 aprile ha incontrato il segretario Usa alla Difesa Lloyd Austin, ha promesso di fare tutto ciò che è in suo potere per fermare l’accordo sul nucleare iraniano. Perché è evidente per gli israeliani che l’Iran non deve proprio produrre energia nucleare, anche fosse per uso civile.
L’incidente dell’impianto nucleare di Natanz è avvenuto in concomitanza con i colloqui “indiretti” tra Iran, Russia, Cina, Francia, Regno Unito, Germania e Stati Uniti che sono in corso a Vienna. Colloqui che dovrebbero ristabilire la quantità e soprattutto i limiti di arricchimento dell’uranio. È fin troppo evidente che si sta cercando di salvare il salvabile dopo l’uscita degli Stati Uniti dall’intesa Jcpoa nel 2018 e il conseguente disimpegno di Teheran dagli accordi. Perchè se da una parte l’equilibrio internazionale passa attraverso l’amicizia degli USA con Israele, è anche vero che tornare a trattare sul nucleare con l’Iran significa avere, seppur poco, un qualche controllo sulle centrali, quelle note, nella repubblica islamica. E in assenza di colloqui, lasciando autonomia all’Iran i risultati parlano chiaro e non sono rassicuranti.
Prima degli accordi, senza i limiti imposti per arricchire l’uranio, il tempo per costruire una bomba nucleare era di circa 45 giorni. Durante l’accordo Jcpoa è salito a circa un anno, per tornare a 90 giorni dopo l’abbandono delle trattative da parte di Donald Trump.
L’ombra del Mossad
Ma tornando al sabotaggio nella centrale di Natanz, il governo israeliano non ha smentito né confermato il proprio coinvolgimento. Anche se il primo Ministro Benjamin Netanyahu ha dichiarato, contestualmente alla ripresa dei colloqui di Vienna: “Israele è contrario al ritorno all’accordo nucleare del 2015 con l’Iran”. Ha poi aggiunto: “Il pericolo che l’Iran torni, e questa volta con un imprimatur internazionale, su un percorso che gli consentirà di sviluppare un arsenale nucleare è alle nostre porte proprio oggi”.
Secondo le ricostruzioni fornite dal New York Times, “un’esplosione avrebbe fortemente danneggiato il sistema che alimenta le centrifughe sotterranee, assestando un duro colpo alla centrale di Natanz, che avrebbe bisogno di almeno nove mesi per ripristinare la capacità di produzione”. In questo eterno scontro, non sempre diplomatico, Teheran accusa Israele di aver attaccato l’Iran, con l’intenzione di rallentare il programma nucleare, con attacchi informatici. Ma anche con l’uccisione di alcuni scienziati iraniani come Mohsen Fakhrizadeh, a fine novembre del 2020.
Il Trattato di non proliferazione del 1968
A questo punto della vicenda, che coinvolge le maggiori potenze del globo, bisogna fare qualche puntualizzazione e fare un salto indietro di qualche decennio. A seconda del livello di arricchimento, l’uranio può essere usato per la produzione di energia nucleare a uso civile o per la produzione di armi.
La contesa che contrappone l’Iran alla Comunità internazionale, ma soprattutto a Israele, riguarda soprattutto l’arricchimento dell’Uranio. Una fase principale del ciclo di produzione del combustibile nucleare che non è di per sé proibito dal Trattato di non proliferazione del 1968.
Agosto del 2002
Tuttavia, i timori nascevano dal fatto che furono accertate da parte dell’Iran violazioni degli obblighi internazionali in materia nucleare. Nell’agosto del 2002 Mujahedeen Khalq, un gruppo di dissidenti iraniani in esilio, venne in possesso di documenti che rivelavano l’esistenza di un programma segreto di arricchimento nucleare fino a quel momento sconosciuto alle Nazioni Unite. I siti segreti, oggi noti e operativi, dove l’Iran arricchiva l’uranio erano Arak e Natanz. L’iran sperava di poter sviluppare la produzione di combustibile nucleare in gran segreto non comunicando la presenza delle due centrali all’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA), come prescritto dal Trattato.
E forse l’intento era proprio quello di produrre armi.
Cosa successe nel 2003
Nel 2003 l’Iran, la cui credibilità internazionale era arrivata ai minimi livelli, si impegnò a sospendere ogni attività di arricchimento dell’uranio. Rimase tuttavia il sospetto che il programma nucleare iraniano avesse una destinazione militare più che civile. La reticenza di Teheran, nel consentire l’ispezione di centrali già accreditate nel protocollo, contribuì a consolidare il sospetto degli ispettori dell’AIEA. L’ascesa di Ahmadinejad alla Presidenza della Repubblica islamica nell’agosto del 2005 ed il suo dichiarato proposito di riprendere le attività di arricchimento dell’uranio su larga scala destò di nuovo allarme nella Comunità internazionale. Allarme giustificato dal fatto che l’Iran aveva e ha tuttora rapporti con gruppi armati in Medio Oriente che sono molto interessati ad acquistare armi nucleari.
Un conflitto costante: la svolta nel 2011
La questione iraniana ha una svolta nel 2011. Per la prima volta e in maniera chiara l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica rende noto un rapporto dove emerge il carattere militare di alcune attività nucleari della Repubblica islamica. Il rapporto dell’AIEA innescò un’accelerazione nel dibattito internazionale, soprattutto per le strategie da adottare per arginare Teheran. Il timore era la possibilità che scoppiasse un conflitto con Israele in una porzione di Medio Oriente cruciale per l’economia mondiale. Le parole del Premier israeliano Benjamin Netanyahu confermarono i dubbi di un imminente attacco alle centrali nucleari italiane: “Israele ha il diritto di difendere se stesso”.
Arriva l’embargo
Ma l’intera questione si aggravò ulteriormente nel 2012. Il 23 gennaio di quell’anno, i ministri degli esteri dell’Unione europea imposero l’embargo totale alla Repubblica islamica con ripercussioni gravissime sull’economia iraniana.
Molti dei 27 Paesi dell’Unione Europea, che nel 2011 importava da Teheran quasi 500mila barili al giorno, rappresentando oltre il 20% dell’export iraniano, avevano già cominciato a ridurre gli acquisti di greggio qualche mese prima. Non, però, i Paesi energeticamente più esposti verso l’Iran, come Grecia, la Spagna e Italia. Il governo di Mario Monti chiese e ottenne il permesso per importare greggio dall’Iran anche dopo l’entrata in vigore dell’embargo perchè l’ENI vantava un credito (da corrispondere in greggio) nei confronti di Teheran.
“Chiuderemo lo stretto di Hormuz”
La reazione all’embargo non si fece attendere. Teheran minacciò la chiusura dello Stretto di Hormuz da dove transitava il 20% della produzione mondiale di petrolio.
Al centro di una nuova serie di negoziati, per scongiurare il blocco di Hormuz, nel mese di aprile del 2012, troviamo la Turchia, che si offre nel ruolo di mediatore tra Mahmud Ahmadinejad e l’Alto Rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza dell’UE, Catherine Ashton. Benché le parti dichiarassero che i negoziati avevano raggiunto risultati soddisfacenti, l’intento di far smantellare l’impianti di Fardow, fortificato e quindi a prova di bombardamento, fallirono.
Gli effetti economici dell’embargo furono catastrofici per l’Iran. Le esportazioni iraniane di greggio calarono da 2,5 milioni di barili al giorno a circa 1 milione. Il riyal, la moneta della Repubblica islamica, si svalutò del 50% rispetto al dollaro. Nonostante ciò, la produzione iraniana di uranio arricchito non ebbe flessioni. L’interesse di Teheran alla sua politica nucleare era ben più alto di una crisi economica anche di quella portata.
In questa vicenda complessa che dura da quasi vent’anni, il conflitto tra Iran e Israele non si è mai fermato. Emerge nei media solo in occasione di incidenti o azioni militari. Come nel caso dell’incidente del cargo iraniano centrato da una mina in Mar Rosso o alla portacointainer israeliana della compagnia Xt Management colpita da un missile in Golfo Persico.
I siti nucleari in Iran
Torniamo all’attualità. Donald Trump, in segno di amicizia con lo Stato di Israele, nel 2018 abbandona il tavolo dell’accordo Jcpoa. Si fa un passo indietro di almeno un decennio. La strategia della forza con l’Iran non funziona, come non ha funzionato un embargo durissimo. Il confronto internazionale con Teheran si blocca, l’attività nucleare no.
Una strada in salita?
E quando si tratta di nucleare la preoccupazione sale. Il gruppo dei 5+1 (Russia, Cina, Francia, Regno Unito, Germania e Stati Uniti ) auspica che gli accordi falliti nel 2018 possano riprendere e non solo includendo il nucleare ma anche il programma missilistico iraniano. In agenda anche l’appoggio di Teheran a gruppi terroristici in Medio Oriente. Gli Stati Uniti, con Biden, rientrano nel gruppo internazionale che cerca di mediare con l’Iran.
Gli equilibri politici
Ma oltre gli accordi, ci sono anche gli equilibri politici. I tedeschi sono alle prese con il dopo Merkel, Biden deve fare i conti con un pensiero trasversale che non disdegnava la politica dura di Trump nei confronti di Teheran. E 43 senatori in una lettera aperta, hanno chiesto a Biden di mantenere le sanzioni all’Iran fino a quando non sarà sottoscritto un nuovo accordo sul nucleare.
A Teheran, il governo di Hassan Rouhani è in forte difficoltà nei confronti degli ultraconservatori che vogliono imporre una linea dura contro Israele e non apprezzano le ingerenze sulla loro politica nucleare. A giugno in Iran ci saranno le presidenziali e il negoziato rischia di trasformarsi in un’arma di propaganda ideale per gli ultraconservatori che hanno al primo punto dell’agenda la distruzione di Israele.
fp
Spirito libero con un pessimo carattere. Fotoreporter in teatro operativo, ho lavorato nella ex Jugoslavia, in Libano e nella Striscia di Gaza. Mi occupo di inchieste sulle mafie e di geopolitica.