Il Tribunale assolve il dragaggio del porto di Spezia: nessuna prova di inquinamento ambientale

Eppure la Cassazione, in un’ordinanza del 2016, aveva scritto che Arpal avvisava in anticipo dei controlli l’azienda incaricata dei lavori

La Spezia – “Se dunque può ritenersi che dall’operazione di dragaggio complessivamente considerata possa essere derivato un inquinamento ambientale, in considerazione della circostanza che allo stesso hanno contribuito vari soggetti in diversi periodi di tempo e all’imputato appaiono imputabili solo tre sversamenti, non può ritenersi raggiunta la prova che l’imputato abbia commesso il reato contestato di inquinamento ambientale”.
Lo ha deciso il Gup del Tribunale di Spezia che con queste motivazioni, il 21 maggio scorso, ha prosciolto i due direttori dei cantieri, gli ultimi indagati nel processo per i dragaggi nel porto di Spezia e la sospetta morìa di cozze nei vivai.
In sintesi, “la sentenza dice che potrebbero essere stati più soggetti a produrre l’inquinamento” ci spiega Marco Grondacci, giurista ambientale e consulente del circolo di Legambiente spezzino, che insieme all’avvocata Valentina Antonini ha curato un esposto depositato in procura nel 2015 che avanzava l’ipotesi di disastro ambientale.
“La cosa andò così: chiunque in quel periodo frequentasse il golfo, anche senza essere un mitilicoltore ma solo per pescare, tirava su le reti piene di questo fango. È su queste basi che è partito il nostro esposto che ha portato al sequestro del cantiere da parte della Procura, ai primi di gennaio del 2016”, dice Grondacci che poi ci anticipa che gli eventi hanno incominciato a ingarbugliarsi fin da subito.

Il decreto di dissequestro del cantiere e la pronuncia della Cassazione

È curioso in effetti che il Tribunale del Riesame abbia accolto il ricorso dell’Autorità Portuale sul sequestro del cantiere di dragaggio anche perchè “i giudici riconoscono che c’è un problema”, chiarisce Grondacci aggiungendo però che “nello stesso tempo dicono che non si capisce bene da cosa sia prodotto” e così procedono all’annullamento del sequestro preventivo.
Una decisione assurda al punto che la procura fa appello in Cassazione e la Cassazione tira una stangata al tribunale con una sentenza storica che per la prima volta applica in Italia il delitto di inquinamento ambientale, appena introdotto nel nostro ordinamento con la legge sugli ecoreati.
“Nel 2016 la Cassazione afferma che c’è l’inquinamento, che l’ha prodotto il dragaggio, che ci sono state le violazioni, che ci sono i testimoni che dicono che la ditta non rispettava le prescrizioni e rimuoveva le panne che avrebbero dovuto  contenere i fanghi”.
E gli Ermellini fanno di più. Mettono nero su bianco che l’Arpal avvertiva in anticipo dei controlli l’azienda incaricata dei lavori. Ma andiamo con ordine, senza mescolare troppo delle acque che sono già torbide.

porto di La Spezia

Solo tre sversamenti o dieci mesi di violazione delle prescrizioni?

Uno dei punti più oscuri della pronuncia di proscioglimento dei giudici spezzini è quello dei tre sversamenti. Ci spiega Grondacci che “siccome gli sversamenti secondo il tribunale sarebbero stati solo tre, all’inquinamento potrebbero aver concorso altre fonti e poiché la responsabilità penale è personale, questi tre sversamenti non sono sufficienti per dimostrare il nesso causale tra il comportamento e il danno prodotto”. Tutto il contrario rispetto alla solita sentenza della Cassazione che “parla addirittura di 10 mesi di comportamenti scorretti, cioè non rispettosi delle prescrizioni”.
E infatti che fuoriuscissero i fanghi lo sapevano tutti.

I verbali della commissione tecnica e il gioco del rimpiattino

Lo sapeva anche la commissione tecnica, quella che “nel 2015 aveva seguito la gestione dei dragaggi, che c’era una problematica sulle panne”. Lo ricorda Grondacci sottolineando come si capisca benissimo già dai verbali: “Il fatto è che le panne avrebbero dovuto rimanere fisse per garantire che non ci fosse la fuoriuscita di fanghi ma le panne fisse creavano problemi al traffico delle navi e allora hanno cominciato a pensare di rimuoverle. Però rimuoverle, e lo dicono sempre i verbali della commissione tecnica, comportava un tempo molto lungo – nelle carte c’è scritto dieci giorni – che ovviamente voleva dire allungare i tempi del dragaggio e quindi allungare i problemi per gli operatori portuali, ovviamente”.
Subentra la paralisi. Non si sa che pesci prendere: “Panne fisse, no mobili, no fisse, no mobili. Sembra che giochino a rimpiattino. Alla fine Arpal parla addirittura di cambiare le tecniche di bonifica del sito perchè la situazione è fuori controllo e si rischiano degli incidenti”.
E infatti dovete sapere che “tutto il golfo di Spezia dentro diga ricadeva nel sito di bonifica di Pitelli, la discarica famosa dell’inchiesta, che prevedeva di eseguire non un semplice dragaggio dell’area ma un dragaggio-bonifica, e questo a causa di un inquinamento chimico dei fondali piuttosto pesante” prosegue Grondacci che tiene a sottolineare come “a un certo punto la legge cambia e il sito è declassato da nazionale a regionale”. Le regole per il dragaggio-bonifica dei siti regionali sono meno stringenti e dunque si avanti così, “dando un colpo al cerchio e un colpo alla botte. Perchè prevedere tecniche diverse costava di più. È un problema di costi”.

Arpal non verbalizza

Arpal non ha mai verbalizzato le fuoriuscite di fanghi per evitare aspetti sanzionatori all’impresa. Lo dice la rappresentante di Arpal. È nei verbali che Grondacci ci legge: “Dice che non poteva verbalizzare la sanzione a questi signori perché la situazione delle panne era molto ballerina e attivare le prescrizioni diventava difficile. Però voglio dire allora perché gliele avete date? Allora dovevate fermare il cantiere di dragaggio, rivedere tutto e capire come mai le prescrizioni non erano adeguate alla situazione concreta”. Tanto più che la Cassazione aveva scritto “che il livello di torbidità delle acque dopo il dragaggio è stato accertato nonostante l’Arpal avvisasse preventivamente dei controlli gli interessati, i quali opportunamente evitavano il dragaggio in previsione dei controlli”.
E invece niente, il cantiere è andato avanti così. Mentre testimoni non ben precisati riferivano ai giudici “di morie di mitili imputabili anche agli scarichi della centrale Enel”.
Peccato che la centrale fosse lì dagli anni ’60 e che non abbia mai prodotto fanghi, semmai scarichi termici.

Di chi è la colpa?

Arpal non era l’unica a dover controllare i lavori.
“Nel comitato tecnico c’erano la Capitaneria di Porto, l’Autorità Portuale, la ASL”, elenca Grondacci. Un mucchio di soggetti che non hanno vigilato e che hanno permesso la violazione delle prescrizioni legate all’appalto “senza che venisse aperto un solo procedimento disciplinare. Eppure in questi verbali la totale confusione degli organi di sorveglianza è dimostrata. Ma nessuno ha pagato”.
E non  si tratta soltanto di un danno ambientale, si impunta Grondacci: “Siccome parliamo solo di ambiente e dicono che siamo romantici, allora parliamo dei danni economici. Chi li paga questi danni economici ai mitilicoltori?”.

Un nuovo esposto

Potrebbe esserci anche un nuovo esposto tra le carte da giocarsi per arrivare al processo. Lo annuncia Grondacci che avverte che “con l’avvocata Antonini stiamo valutando la possibilità di impugnare anche in Cassazione ma bisognerà vedere cosa farà la procura. La procura in questa vicenda è stata smentita perché chiedeva il rinvio a giudizio e invece c’è stato il proscioglimento. Quindi sarà molto importante capire se è intenzionata o no a ricorrere”.
E ora che il Parlamento ha aperto la strada alla deregulation, con l’approvazione di una risoluzione con cui si impegna il Governo “ad assumere ogni iniziativa volta a semplificare le operazioni di dragaggio” e “a valutare l’opportunità di modificare il codice dell’ambiente nella direzione di una maggiore efficacia e semplificazione delle verifiche ecotossicologiche”, sarebbe un segnale importante andare avanti, anche se sarà molto difficile ottenere soddisfazione. Lo sottolinea Grondacci che conclude: “Spesso, quando ci sono legami economici con il territorio, chi inquina non paga”.

Simona Tarzia

Simona Tarzia

Sono una giornalista con il pallino dell’ambiente e mi piace pensare che l’informazione onesta possa risvegliarci da questa anestesia collettiva che permette a mafiosi e faccendieri di arricchirsi sulle spalle del territorio e della salute dei cittadini.