Morire da soli, in camere “fredde” dove hanno accesso solo i sanitari. Con o senza Coronavirus. Una testimonianza dolorosa di un’esperienza incomprensibile
“Buongiorno,
questo resoconto è sì personale ma vuole anche essere un grido e una testimonianza che rappresentino collettivamente, tutte le persone, degenti e familiari, che hanno dovuto loro malgrado subire questa dolorosa esperienza.
Brevemente la parte clinica: papà Giuseppe cade e si rompe il femore, ricovero in ospedale (17 giorni), intervento chirurgico andato bene, a due giorni dalle dimissioni per inserimento in struttura riabilitativa, sorgono complicazioni e ci “saluta”.
L’amarezza e la rabbia sono sempre vive, e anche se è di ieri la notizia di una probabile apertura alle visite dei parenti con green card, continuo a non comprendere perché i pazienti delle categorie fragili hanno dovuto subire le stesse restrizioni del periodo “caldo” del primo lockdown, in cui giustamente e purtroppo regnavano la paura, la morte, il mistero e strutture ospedaliere e personale erano al collasso fisico e psicologico.
Ma oggi? O almeno fino a 2-3 settimane fa?
Siamo passati in zona Bianca e il coprifuoco è finito, l’Ospedale dove era ricoverato mio padre è Covid-free, si sono (giustamente per l’economia, l’occupazione, e altro) riattivati servizi commerciali, ristorazione, locali di intrattenimento, bar e però, non si è potuto andare a trovare una persona bisognosa, in condizioni psico-fisiche critiche e con tutte le cautele del caso? Perché?
In ordine sparso: nonostante la professionalità e il carico di lavoro che gli operatori avevano ed hanno, chi meglio di un congiunto, poteva stare vicino al malato per aiutarlo e invogliarlo a mangiare? Considerato che per ovvi motivi, il personale non può certo avere le medesime attenzioni e lo stesso tempo da dedicare? Sarebbero stati sufficienti 10 minuti, e solo una persona cara vicino, per avere tangibili benefici.
Perché le strutture e i reparti, non sono dotati di un supporto tecnologico (smartphone, tablet), con cui i pazienti tramite videochiamata, si sarebbero potuti mantenere in contatto, almeno una volta al giorno e per pochi minuti, con il resto della famiglia a casa, senza avere così la sensazione dell’abbandono e dello sconforto?
Perché i pazienti non hanno potuto avere, oltre alle cure prettamente sanitarie, un’assistenza di cura e decoro della persona, quale poteva essere ad esempio, una rasatura della barba, che papà Giuseppe (e chissà quanti altri) non ha potuto avere, pur portando in reparto l’occorrente (lamette e schiuma) e pur ricevendo io, rassicurazioni che sarebbe stato fatto e invece l’ho trovato il giorno del decesso come Robinson Crusoe? Un grazie al personale delle camere mortuarie che ha rimediato.
Perché mia sorella vaccinata come anche mio padre, è stata fatta entrare una volta sola per assisterlo, in via eccezionale? Non poteva allora essere sufficiente un ingresso, per creare un possibile contagio?
Perché ad esempio non c’è nessun problema (mia esperienza di pochi giorni fa) a recarsi al Trasfusionale a donare il sangue, dove sì, vigeva una sanificazione continua e l’uso di mascherine, ma eravamo comunque un buon numero di persone che giravano per i locali, tra donatori, infermieri, dottori, amministrativi e donatori in attesa? Donare il sangue sì e fare una visita no? Qual è la differenza?
Perché dopo un anno e passa, anche la comunicazione telefonica tra personale e parenti, è pressoché lapidaria, con poche e frettolose informazioni, quasi estirpate, sulle condizioni generali dei pazienti?
Il punto sopra è rafforzato dalla visione di nostro padre, nelle poche videochiamate (capitolo a parte) che siamo riusciti a fare, dove al netto del coinvolgimento personale, era chiarissimo che il problema principale, non era più la buona riuscita o meno dell’intervento al femore. Si trattava invece di supportare in qualche modo una persona in evidente stato confusionale e con problematiche che, ripeto, sarebbero state lenite e affrontate meglio da un familiare, piuttosto che da un operatore, anche con anni e anni di esperienza. Vi risparmio i motivi e la spiegazione.
Tutti questi interrogativi e stati d’animo, non si placano. E cose da dire ce ne sarebbero ancora molte. Spogliandomi dalla veste di figlio e guardando da fuori questa storia, c’è sì la consapevolezza che una persona più che ottuagenaria e con qualche problema, potesse finire la sua corsa. Rimane però il dubbio (forte) che con un altro approccio e un’altra assistenza e vicinanza, ripeto nella situazione sanitaria odierna, sarebbe potuto uscire dall’ospedale e anche se per ancora poco tempo, avrebbe potuto incontrare ancora nella RSA riabilitativa, la signora Maria che tutta emozionata, attendeva quel momento a casa, dopo 62 anni di vita insieme. Tanto mi sentivo di dire”.
Lettera firmata
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