Complottismo un tanto al Kilo

La cabala dell’11 luglio

11 luglio, qualcuno ci ha costruito sopra il mito, a proposito della data, con l’operazione amarcord, andando a rimestare nei ricordi di 39 anni fa. Quando la nazionale di Enzo Bearzot, sconfiggendo la Germania al Bernabeu vinse il terzo mondiale della sua storia.

Qualcuno ha utilizzato la W, che unisce i due siti sportivi per antonomasia di Londra, Wembley e Wimbledon, templi del calcio e del tennis, per lanciare l’ultimo incoraggiamento – W L’ITALIA – a Matteo Berettini, il tennista che nel primo pomeriggio affronterà sul centrale in erba re Nole Djokovic, e all’undici azzurro allenato da Roberto Mancini che alle 21 scenderà  in campo contro i pronipoti degli inventori del football.

Pomeriggio e nottata di sport, ma non solo, mentre si discute ancora sul distanziamento e sulle mascherine, sui maxi schermi e sulla pericolosità  degli inevitabili festeggiamenti ceek to ceek, con tanto di maxi assembramenti, in caso di vittoria.

I trent’anni dello scudetto

Qualcuno, magari, alla fine e in caso di titolo europeo, sarà persino disposto a diffondere il verbo sostenendo che Mancini e il suo staff blucerchiato, con il gemello Gianluca Vialli, proprio nel trentennale dell’unico scudetto e nello stadio in cui subirono l’onta della sconfitta in finale, dovevano per forza rimettere in equilibrio la loro partita con il destino. Comunque aggiungerà persino che il maggior merito per questa vittoria spettera’, pur sempre di diritto, a quel “drago” di Mario Draghi che ha ricompattato, prima ancora di Roby e Gianluca, l’intero paese, prima di lui diviso fra politica e antipolitica. E non solo attorno a un pallone.

Un paese nel pallone

Anche se, anche nel paese nel pallone, persino col paese nel pallone… inevitabilmente qualcuno ha iniziato a gridare al complotto. Sportivo ma non solo. Tra un povero Alvaro Morata, punta spagnola, prima insultato per aver siglato il gol del pareggio contro la nostra nazionale e poi sbeffeggiato per aver sbagliato un calcio di rigore fondamentale. “I social danno la parola a legione di imbecilli”, se la era cavata, a ragione e con preveggente saggezza un tal Umberto Eco in tempi non sospetti.

Con quella gag con “mentiroso” e buffetto del capitano Giorgio Chiellini al suo omologo delle furie rosse, Jordi Alba, a stemperare un po’ la tensione prima dei calci di rigore e utilizzato in maniera subdola da qualche giornale spagnolo nel tentativo di eccitare gli animi dei tifosi sconfitti.

Luis Enrique, un marziano

Con quell’allenatore iberico, Luis Enrique che sembra un marziano solo perché si comporta come un perfetto sportivo, facendo i complimenti ai suoi giocatori, pur sconfitti, e alla nostra nazionale che si è imposta con merito. E, onore a lui, confida che nella finale tiferà per gli azzurri. I social, e non solo, finiscono per esaltarlo ricordando il dramma della perdita della sua bambina per una malattia incurabile che lo ha costretto a smettere per alcuni anni con il calcio. Anche se qualcuno si adombra, e si indigna perché sul web circola la foto del papà e della sua bambina scomparsa, con la maglia del Barcellona. Come se qualcuno intendesse sfruttare l’effetto compassione. Insomma, in un mondo di cattiveria, il diverso continua in un modo o nell’altro a fare paura

È il clima avvelenato un po’ tossico, sport, politica o quant’altro, che trasuda in questi giorni in cui, nonostante le varianti e le zone bianche, fra nuovi casi assenti o in decrescita verticale, hub vaccinali e richiami, il Covid e il lockdown hanno lasciato finalmente spazio a nuove notizie.

Epperò, in ogni caso, non può mancare strisciante, o anche no, irridente oppure per davvero, quel vischioso sapore di complotto. Magari costruito ad arte, magari appena insinuato purché presente nella narrazione. Evocando, comunque, la supremazia dei poteri forti, dalla UEFA ai padroni di casa, dai perfidi albionici che si sono accordati con lo sloveno Ceferin, ammutinandosi alla Superlega.

Boris Johnson il salvatore

Così l’Europeo sarebbe diventato una sorta di resa di conti in cui Spagna e Italia, dopo essersi eliminate l’un l’altra, avrebbero poi dovuto soccombere sotto lo strapotere inglese, magari con il favore degli arbitri e delle possibili miopie degli addetti al Var.

Narrazioni che prendono puntualmente il largo dopo il rigore concesso con troppa magnanimità agli inglesi nei tempi supplementari contro la rocciosa Danimarca che era si era permessa persino il lusso di andare in vantaggio. Tanto che Stefano Boldrini, l’inviato della rosea Gazzetta dello Sport a Wembley già giovedì mattina metteva in guardia i suoi lettori: “In un Europeo organizzato ad uso e consumo dell’Inghilterra non c’è da sorprendersi se sia un rigore molto generoso a lanciare la banda di Gareth Southgate verso la rima finale dopo 55 anni. Peccato perché questa nazionale non ha bisogno di aiutini, ma quanto è accaduto in questi mesi con l’Euefa che ha ignorato gli appelli di due governi e il grido di allarme lanciato dall’organizzazione mondiale della Sanità lascia intendere quale sia l’aria. Tra l’Inghilterra e un titolo annunciato, in un torneo giocato in casa, c’è ora l’Italia e da queste parti sono preoccupati: gli azzurri sono considerati inafferrabili. Mancini dovrà invece tenere conto di due cose: della consistenza dell’avversario e del vento politico. Romanzando su quanto accadde nelle ore di tentato golpe Superlega, il premier britannico Boris Johnson è passato alla storia come l’uomo che ha salvato il calcio europeo da pericolosi strappi. Un effetto ricambio sta nella logica delle cose: penseremo male e saremo peccatori. Ma meglio così che passare per fessi”.

Una Regina per arbitro

E da qui la stura alle fantasie social. Con grande protagonista la regina Elisabetta sorridente per la decisione dell’arbitro in campo mentre esamina lo schermo del Var facendo finta di niente. E, comunque, tanto per gradire, in divisa da arbitro UEFA, giacchetta e pantaloni neri. Con tanto di pensierino del pomeriggio o della notte: “quando hai uno strano presentimento per domenica sera…”.

E ancora quelle foto del premier Boris Jonhson a Wembley in tribuna con maglia dell’Inghilterra, scatenato prima per il pareggio e poi per il rigore decisivo.

“A Wembley vivremo una finale bellissima. Non va rovinata dalla paura dei complotti”

Vabbè. Poi, però, la stessa rosea Gazzetta dello Sport, tira le briglie al suo inviato e tocca allo scrittore Andrea Di Caro, il compito, più o meno ingrato, di togliere il piede dall’acceleratore. Articolo di fondo, il giorno successivo, a pagina 35 con il titolo: “A Wembley vivremo una finale bellissima. Non va rovinata dalla paura dei complotti”. Con un incipit che dovrebbe togliere ogni dubbio: “ Non cadiamo in una facile e sbagliata tentazione. Ci aspetta una finale bellissima e non va avvelenata da sospetti, paure, timori di complotti. Italia-Inghilterra rappresenta il meglio di questo Europeo”. E, insomma, tra simulazione e spinta lieve Di Caro torna a seminare qualche dubbio: “Si doveva mandare l’arbitro a vedere se quelle immagini confermavano o meno l’impressione da lui avuta in campo. Troppo importante il momento e troppo importante la decisione. Anche nei corridoi dell’Uefa si ritiene che sarebbe stata la scelta più corretta”.

E si va avanti, il giorno successivo, con l’intervista di ieri a Zvone Boban, ex calciatore e dirigente del Milan, ormai risistematosi nelle vesti di responsabile del calcio UEFA, approdato alla corte del connazionale Ceferin che sventa in angolo: “Mi viene da ridere, ridicolo solo pensare che l’Uefa favorisca una squadra. Teorie cospirazioniste e dietrologia sono sempre esistite, ma chi vive il calcio sa che sarà una finale pulita”.

Perorazione scozzese:”Roberto salvaci tu”

E ancora l’ultimo post a tema con “il Mancio” cuore impavido nei panni del Mel Gibson eroe e leader di Braveheart, con tanto di volto azzurro Scozia e la perorazione “Roberto Salvaci tu”.

Non ci rimane che aspettare mentre, magari, qualcuno di fronte all’eccessivo unanimismo nei confronti dell’ex Bobbygol, bello e bravo, si accalora a mettere qualche distinguo nei confronti di chi lo aveva marchiato, a suo tempo, quando aiutò Gianluca, la Samp e Mantovani a fregiarsi dello scudetto, come un “Bimbo viziato”. Ed ora si precipita sul carro del vincitore, magnificandone visione, doti, carattere. O quasi.

Ma…. così è per tutti. Anche per la divina Raffaella. Un giorno lontano cancellata dalle classifiche dei successi discografici per volere, si dice, del Vaticano. E non tanto per quell’ombelico esibito, ma per la presunta sensualità assassina di quel TUCA TUCA, che suggeriva fantasie erotiche pre amplessi. Eppoi, sempre lei, la Carra’ di “Carramba che sorpresa” è diventata post mortem, nella memoria collettiva ma non soltanto, una vip in attesa di beatificazione. E chissà se prima o poi qualcuno si ricorderà di lei suggerendo alla toponomastica, locale e e non, l’intitolazione di una via, di una piazza, uno slargo o di un teatro. Che comunque questo europeo giunto al termine i suoi martiri e Santi ce li ha gia’. Beatificati, a dovere, sui social. A cominciare da San Christian (Eriksen), il calciatore che visse due volte riportato in vita da un apostolo, danese come lui, tal Simon (kjaer) da Milano che gli ha restituito il soffio vitale con un bacio… come il principe di Biancaneve o come Giuda. E poi San Leonardo (Spinazzola) da Foligno, santo claudicante dal tallone d’Achille, che è tornato insieme a tutti gli altri santi. E infine San Kasper (Schmeichel), anche lui danese. E comunque lui sì, e a maggior ragione, martire.  Brutalizzato dai puntatori laser dei  perfidi albionici. Miracoloso nella prima parata. E poi “giustiziato” dall’uragano Harry Kane. Che stasera…. ,ma noi scaramantici, già ci stiamo toccando, potrebbe essere beatificato e decretato Santo a furor di popolo, proprio a Wembley. O, magari, anche no.

Perché, come dice oggi il mio amico Giovanni Giaccone in un post lapidario ma a misura di social: “In principio era il caos e quindi non è cambiato un ca**o”.

Galeotta fu la telefonata

Che poi, passando dal calcio alla politica, come si usa fare al bar o nella saletta del barbiere, anche in quel caso il dovuto condimento non può mancare. Sino a, udite udite,…. a immaginare l’elevato o ex elevato, Beppe Grillo, quello del “vaffa” contro i poteri forti gridato a squarciagola in tutte le piazze italiane, blandito da quel marpione di Mario Draghi, il potenziale vincitore di una possibile Italia campione d’Europa, con la riforma della giustizia. Fino ad improvvisarsi inconsciamente o involontariamente, il Beppe nazionale, nei panni di un Berlusconi qualunque.

Parliamo di riforma della giustizia, o dell’ingiustizia. E i complottisti, comunque, sarebbero sempre loro, i pentastellati. Più esattamente quelli che stanno dalla parte dell’ex premier Conte. Perché il premier Draghi che ha scelto la linea direttissima, telefonando a Grillo per chiedere l’attivazione della sua longa manus con i ministri pentastellati per una mediazione con il ministro guardasigilli Marta Cartabia eludendo o anticipando la votazione online sul nuovo statuto lo ha trascinato in un pantano per niente da ridere.

L’elevato come Berlusconi

Di più, perché scatta la similitudine con l’inviso Berlusconi sempre e da sempre inguaiato personalmente sulla questione giustizia. Lui con Ruby, la presunta nipotina di Mubarak, l’altro l’uomo del “vaffa” con la vicenda del figlio Ciro, accusato di stupro. Nenanche a farlo apposta il giorno prima dell’udienza. E con un Grillo ipersensibile al tema. Addirittura in conflitto di interessi, come è stato Silvio Berlusconi per tante leggi ad personam, visto che il reato di cui è accusato il figlio è indicato nel novero di quelli che potrebbero fruire della sospensione della prescrizione risultando fra le eccezioni dopo tre anni in appello e un anno e mezzo in Cassazione.

Problemi di sostanza, ma anche di forma perché l’Elevato avrebbe dovuto sfilarsi indirizzando l’interlocutore al reggente Vito Crimi, oppure all’ex premier in cerca di leadership Giuseppe Conte. Anche se in estrema sintesi Grillo, in fondo il suo ruolo in questo momento continua a mantenerselo ed è quello di garante. Più o meno riconosciuto dalla base. Fra precedenti minacce di dimissioni dell’ex premier. Una forzatura, insomma, rispetto al dibattito proprio fra l’attuale premier e quello che lo ha preceduto.

Alemanno sette anni di attesa

Intanto proprio venerdì l’ex sindaco di Roma Gianni Alemanno è stato assolto dalla Cassazione. Dal momento dell’imputazione che lo ha costretto a dimettersi sono passati “appena” sette anni.  Con tanto di sputtanamenti politico e personale che lo ha di fatto cancellato dalla politica. L’assoluzione della Cassazione, vale la pena di ricordarlo, non gli impedirà di dover frequentare ulteriormente in futuro le aule di giustizia, visto che i giudici hanno deciso che sarebbe stato necessario un nuovo processo in appello per determinare nuovamente la pena dopo aver riqualificato le accuse in traffico di influenze per un caso legato all’Ente Eur spa. Da mafioso a corrotto a trafficante di influenze.  Resta l’interminabile attesa con tanto di spese processuali.

Problemi di efficienza

Perché alla fine, anche in questa vicenda, complotti o no, come osserva l’illustre professor Giovanni Maria Flick su “Il Secolo XIX”: “Sembra una condanna ma ogni volta che in Italia si apre la discussione sulle proposte di riforma della giustizia ci si accapiglia sulla prescrizione. È successo in passato, accade anche oggi. La polemica nasce da un errore di fondo. Si ritiene infatti che la durata eccessiva dei processi nasca dalla volontà delle parti di allungare i tempi, puntando alla prescrizione e non dalla disorganizzazione degli uffici giudiziari che sono la vera causa dei tempi lunghi”. L’acqua calda, insomma, e aggiunge : “ È l’amministrazione della giustizia, con le sue regole e la sua organizzazione a doversi preoccupare dell’efficienza del sistema”. Eppure spesso è più facile per tutti rimandare il dibattito all’infinito. Ricorrendo ai fumogeni e alle tesi di sempre, quelle del complotto. Immolando, magari, una casta. A favore di un’altra casta. Che è egualmente potente e intoccabile. Anzi di più e addirittura più coesa e organizzata. E, soprattutto, non ha problemi legati al voto. E, a quanto pare, neppure alla supposta efficienza o inefficienza.

Paolo De Totero

Paolo De Totero

Quarantacinque anni di professione come praticante, giornalista, vicecapocronista, capocronista e caporedattore. Una vita professionale intensa passata tra L’Eco di Genova, Il Lavoro, Il Corriere Mercantile e La Gazzetta del Lunedì. Mattatore della trasmissione TV “Sgarbi per voi” con Vittorio Sgarbi e testimone del giornalismo che fu negli anni precedenti alla rivoluzione tecnologica, oggi Paolo De Totero è il direttore del nostro giornale digitale.