Pennino: “Mio zio si recava in Calabria dove aveva messo insieme massoni, ‘ndrangheta, servizi segreti, politici per fare affari e gestire il potere. Una sorta di comitato d’affari perenne e stabile”
Il 416 bis è ancora uno strumento in grado di fotografare le mafie e darne una definizione precisa e attuale? Secondo il procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo, che è intervenuto al Trame Festival, no e non dovrebbe essere considerata un’eresia l’idea di riformarlo. Intendiamoci – specifica Lombardo – il 416 bis è stata una legge chiave, un dispositivo all’avanguardia mondiale per combattere le organizzazioni mafiose e in questo senso non andrebbe assolutamente stravolto. Ma modernizzato si, visto che nel frattempo, dalla sua nascita nel 1982, si sono evolute anche le mafie.
Un esempio è stato Mafia Capitale, o meglio Non Mafia Capitale, visto che l’associazione mafiosa non è stata riconosciuta. Un’inchiesta che dall’inizio, a detta degli stessi inquirenti, presentava caratteri propri “solo in parte assimilabili a quelle delle mafie tradizionali – come ha scritto la Gip Flavia Costantini nell’ordinanza d’applicazione di misure cautelari.
In una città complessa come Roma e in un contesto corruttivo che si insinua negli edifici del potere e diventa esso stesso potere, cambia e si fa polimorfo il concetto di controllo del territorio. “I colleghi romani – ha spiegato Lombardo – hanno dovuto fare una premessa al loro lavoro per dire: attenzione che tra le componenti indispensabili per andare ad accertare se è mafia o non lo è, non c’è la necessità di controllare un territorio. Il che mi pare evidente, se è vero che oggi ci troviamo di fronte a componenti di alta mafia, che vedono il territorio come qualcosa di necessario per esplicare determinate strutture criminali, ma che prescindono da questo”.
“Noi dobbiamo imparare a riconoscere la nuova veste dei fenomeni criminali di tipo mafioso, perché le caratteristiche tradizionali del mafioso non esistono più” – mette in guardia il procuratore.
Quello di “alta mafia” è un concetto cardine, che muove dalle prime dichiarazioni e dalle prime inchieste degli anni’90 e ha preso forma in processi come Meta, Gotha, Mammasantissima, Breakfast e ‘Ndrangheta stragista, solo per citarne qualcuno.
Due sono le evoluzioni che formano il concetto di alta mafia: la componente invisibile, riservata, massonica, che dialoga direttamente con le istituzioni e il Potere; e la fusione delle varie mafie in un unico sistema criminale. Evoluzioni che la procura di Reggio Calabria ha argomentato con decine di processi storici che – forse non caso – non hanno suscitato l’attenzione nazionale.
Era il 1992 quando Leonardo Messina, collaboratore gestito da Paolo Borsellino, disse alla commissione parlamentare Antimafia, che Cosa Nostra è la stessa in Calabria come in Sicilia e che “Cosa Nostra e la massoneria, o almeno una parte della massoneria, sono stati sin dagli anni ‘70 un’unica realtà criminale integrata … perché è nella massoneria che si possono avere i contatti con gli imprenditori, con le istituzioni, con gli uomini che amministrano il potere”.
Mafia, servizi segreti e massoneria
Il legame fra mafie, servizi segreti e massoneria è stato confermato anche dal siciliano Gioacchino Pennino: “Mio zio – ha dichiarato – si recava in Calabria dove, mi disse, aveva messo insieme massoni, ‘ndrangheta, servizi segreti, politici per fare affari e gestire il potere. Una sorta di comitato d’affari perenne e stabile”.
In tempi più recenti il sodalizio fra ‘ndrangheta e cosa nostra è stato provato – almeno in primo grado – nel processo ‘ndrangheta stragista, per la quale sono stati condannati all’ergastolo il boss siciliano Giuseppe Graviano e il calabrese Santo Filippone. Muovendo dall’omicidio dei carabinieri Fava e Garofalo, avvenuto sulla Salerno Reggio Calabria, il processo ricostruisce l’apporto dato dalla ‘ndrangheta alla stagione stragista voluta nel ’93 -94 da Totò Rina, smentendo la vulgata di una ‘ndrangheta restia a sfidare lo Stato.
Per il procuratore Lombardo non ha più senso parlare delle diverse mafie, presentandole con caratteristiche diverse: “Quando ancora oggi si parla di cosa nostra, della ‘ndrangheta, della camorra, come di organizzazioni con caratteristiche proprie, così come della sacra corona unita (per quanto molto meno importante della ‘ndrangheta), io intravedo una distorsione della ricostruzione che va fatta”. Si chiama disinformazione ed è volta ad annebbiare il sistema criminale integrato, che ci troviamo di fronte.
“La ‘ndrangheta non esiste più – spiegava nel 2013 Panataleone Mancuso, alias zio Luni – La ‘ndrangheta fa parte della massoneria, … hanno le stesse regole … ora è rimasta la massoneria e quei quattro storti che ancora credono alla ‘ndrangheta”.
Il progetto Santa, ovvero la creazione di un livello coperto, compartimentato, sconosciuto anche ai picciotti dell’organizzazione, in grado di interfacciarsi con le leve del potere e compenetrarle, è del 1969. Noi la scopriamo solo negli anni ’90-2000 con l’Operazione Olimpia (I-V).
L’esistenza della struttura riservata è stata ampiamente riconosciuta dalle sentenze del processo Meta, in cui si spiega che è “composta da soggetti significativamente definiti dagli stessi indagati come ‘gli invisibili …la cui adesione alla ‘Ndrangheta, anche per ragioni di maggiore tenuta della stessa organizzazione, è e deve rimanere ignota agli stessi altri affiliati”.
C’è la ‘ndrangheta visibile e quella invisibile
“C’è una (‘ndrangheta) che si sa e una che non la sa nessuno – spiega il boss Sebastiano Altomonte alla moglie, nell’inchiesta Bellu lavoru – perché se no il mondo oggi finiva; se no tutti cantavano. Perché c’è la visibile e l’invisibile … e noi altri siamo nell’invisibile. Capisci? E questo conta”.
“Qualche anno fa – racconta Lombardo – sono stato chiamato dai colleghi della Dda di Milano a interrogare un collaboratore che aveva ricevuto il grado di padrino. Quest’uomo raccontava che, arrivato al massimo grado conosciuto di ‘ndrangheta, ha percepito che chi contava veramente stava molto più in alto di lui: nella componente massonica, riservata o invisibile. Nel momento dell’investitura ha chiesto ‘ora per me cosa cambia?’ ‘Niente’ – gli ha risposto chi lo ha voluto per lui quell’ avanzamento di carriera -‘niente contavi prima e niente conterai ora’. E parliamo di un uomo che aveva il controllo di mezza Lombardia, non proprio un territorio qualsiasi. Alle sue continue domande, a un certo punto gli hanno risposto infastiditi: ‘non insistere, sono domande che non si possono fare. Anche per noi è difficile accedere a quel livello ed è un livello governato da logica e regole massoniche.
Se il livello superiore della ‘ndrangheta è sconosciuta ai suoi stessi soldati, anche di alto grado, bisogna stare attenti a non scambiare per concorrenti esterni, uomini che sono le menti pensanti dell’organizzazione. “Uomini cerniera” li si chiamava alcuni anni fa. Professionisti che mettevano il loro sapere al servizio della cosca. “Fino a un certo punto gli uomini cerniera sono stati raccontati come soggetti estranei al circuito mafioso – spiega Lombardo – al servizio della cosca ma solo in relazione a determinate contingenze. Quindi quando sono stati processati, sono stati condannati come concorrenti esterni, senza rendersi conto che il rapporto fra capomafia e soggetto cerniera andava letto diversamente. Il capomafia deve apparire come il soggetto ultimo rispetto alla gerarchia criminale ed era suo compito gestire la componente riservata che in realtà gestiva lui”.
Il procuratore Lombardo nomi non ne fa. Per lui e per il suo ufficio parla l’ultima sentenza – per quanto in primo grado – portata a casa. Il 30 luglio scorso il tribunale di Reggio Calabria ha inflitto 25 anni all’ex parlamentare del psdi, Paolo Romeo, 17 anni al suo braccio destro, l’avvocato Antonio Marra, 13 per l’ex sottosegretario regionale Alberto Sarra, 9 a Don Pino Strangio, ex rettore del santuario di Polsi e 3 al commercialista vicino ai Servizi, Giovanni Zumbo.
Paolo Romeo, insieme all’avvocato Giorgio De Stefano, già condannato nel procedimento abbreviato in appello, sono considerati esponenti della “cupola” ndranghetista, in grado di mettere in atto un programma eversivo dell’ordine democratico.
Chiara Pracchi
Giornalista per passione, mi occupo soprattutto di mafie e di temi sociali. Ho collaborato con PeaceReporter, RadioPopolare, Narcomafie, Nuova Società e ilfattoquotidiano.it.
Per Fivedabliu curo le inchieste da Milano.