Mentre la comunità internazionale affronta lo smacco di non essere riuscita a costruire nulla che valesse vent’anni di sforzi
La caduta di Kabul è una grande sconfitta per la comunità internazionale che non è stata capace di avviare un dialogo con il nemico ma ha concentrato i suoi sforzi nel Paese solo sulla vittoria militare.
“Il nostro obiettivo era il terrorismo, non la costruzione di una nazione”, ha detto il presidente USA, Joe Biden, dopo il ritiro maldestro delle truppe dall’Afghanistan. Peccato che ora, dopo vent’anni, è la bandiera dell’Emirato a sventolare sul palazzo presidenziale, mentre la cosiddetta “Guerra al terrore” mostra tutto il gusto stantio di uno slogan di bushiana memoria. Sopratutto adesso che l’azione diplomatica degli Studenti coranici punta alle Nazioni Unite e al riconoscimento internazionale.
Ma possiamo davvero distogliere l’attenzione dall’Afghanistan o c’è il rischio che il Paese torni ad essere il santuario del terrorismo jihadista?
Lo abbiamo chiesto a Fabrizio Coticchia, professore associato dell’Università di Genova e docente di Studi sulla sicurezza, Terrorismo e Peacekeeping, che al termine del convegno “Afghanistan 2001-2021” che ha organizzato nell’aula magna del DISPO, ci spiega quanto sia reale “il rischio che alcuni attori terroristici possano ancora trovare spazio in Afghanistan e porre una minaccia sia per quel contesto locale che a livello internazionale. Non distogliere lo sguardo è necessario anche per imparare dagli errori commessi in questi vent’anni ed evitare così di ripeterli in altri contesti”.
Preoccupa, in effetti, anche il futuro della condizione delle donne i cui i diritti sono stati spesso ostacolati dai religiosi integralisti. E se “per molti anni l’intervento occidentale si è concentrato su questo aspetto, anche alla luce di quelle che erano le condizioni della donna in Afghanistan prima dell’intervento occidentale – precisa Coticchia -, sicuramente gli avvenimenti delle ultime settimane non fanno certo ben sperare da questo punto di vista. Certo non è una novità nel senso che la preoccupazione per le condizioni della donna, e in generale per i civili afghani, avrebbe dovuto essere maggiore nell’arco di questi anni nei quali naturalmente abbiamo cercato come comunità internazionale di intervenire nel Paese ma abbiamo commesso gravi errori e sarebbe ancora più grave di nuovo distogliere l’attenzione dopo tutti questi anni di intervento”.
Profughi afghani, crisi europea?
Parlando di civili non si può non chiedersi quanto il dramma dei profughi e della loro gestione sarà destabilizzante a livello di relazioni internazionali, perchè “l’Afghanistan, insieme al Sudan e alla Siria, è uno dei tre paesi che fornisce la stragrande maggioranza di profughi a livello internazionale, e la maggioranza ha meno di 18 anni”. Lo chiarisce Coticchia che poi sottolinea che “noi come europei siamo preoccupati e parliamo di invasione ma tendenzialmente i profughi vanno verso i paesi confinanti, pensiamo alla Turchia o al Libano nel caso della Siria, e dunque saranno i paesi vicini all’Afganistan a farsi carico della maggior parte dei flussi”.
Pakistan e Iran, ad esempio, già oggi ospitano rispettivamente 1,5 milioni e 800 mila rifugiati afghani e questo determinerà certamente delle conseguenze a livello di destabilizzazione. Commenta Coticchia: “Anche in questo caso dobbiamo pensare agli errori che abbiamo commesso perché fino a qualche settimana o mese fa rimandavamo tranquillamente i profughi afghani via dall’Europa. Li rimandavamo a casa perché non consideravamo l’Afghanistan un Paese a rischio. Anche in Austria c’è stata una discussione da questo punto di vista proprio per mantenere ferma questa posizione intransigente che a mio avviso rappresenta un gravissimo errore”.
Quelle armi abbandonate dall’esercito USA
Quaranta tra elicotteri Black Hawk e droni militari, più duemila veicoli corazzati e un numero imprecisato di armi e munizioni. Almeno questa è la stima del tesoretto lasciato dall’esercito USA nelle mani dei Talebani. Un espediente per fomentare l’instabilità nel Paese? Lo ventilano alcune fonti complottiste che Coticchia, però, stronca subito: “Questa è la tendenza. Ce lo insegna anche lo studio dei conflitti dove abbiamo una presenza internazionale. Perchè è molto costoso e molto oneroso portare via tutto il materiale e quindi se ne abbandona una parte sul campo”. Nessun complotto, dunque, anzi non è per niente bello, “a livello di prestigio per gli Stati Uniti, l’immagine dei propri elicotteri che vengono usati anche per scherzo da parte dei talebani. Si tratta di un errore che deriva dal più ampio errore legato all’implementazione fallimentare del ritiro dall’Afghanistan. Uno sbaglio che può comportare che alcune di queste armi vengano utilizzate proprio come è successo in Iraq con l’Isis che ha messo le mani su questo arsenale ponendo chiaramente grosse minacce nei confronti dell’esercito iracheno”.
Col governo talebano ci dobbiamo parlare?
Che i nuovi signori di Kabul cerchino il dialogo con la comunità internazionale è fuori discussione. “Lo abbiamo visto in questi giorni all’Onu: i talebani ricercano una propria legittimità internazionale, vogliono un ruolo internazionale”. Continua Coticchia spiegando che “da una parte è cruciale dialogare anche col nemico e forse il fatto di non averlo fatto prima, come condizione per porre fine al conflitto magari in maniera diversa, è stato un errore commesso dalla comunità internazionale, una mancanza di definizione di vittoria”. Come dire, ci si è concentrati sulla vittoria militare tralasciando completamente quella diplomatica. Certo è “sicuramente complicato per la comunità internazionale, anche a livello di immagine e anche pensando a coloro che hanno perso la vita a migliaia combattendo quelli che adesso sono al potere in Afghanistan, pensare a un dialogo”. Nemici o nuovo corso? È una decisione difficile da prendere.
Intanto, come se non avessero altro a cui pensare, in questi giorni il governo talebano ha nominato il proprio rappresentante al Comitato olimpico. Un segnale? “All’interno del dramma che sta vivendo il Paese sembra quasi una cosa buffa, però è in linea con quello che dicevo prima rispetto alla necessità di ricercare e trovare una legittimità internazionale e quindi svolgere un ruolo all’interno delle organizzazioni internazionali, che siano le Nazioni Unite come è stato chiesto in questi giorni dai leader talebani o che siano ambiti che attengono allo sport. Sicuramente è un segnale di questa ricerca di riconoscimento, a tratti spasmodica, che è cruciale per garantire anche la stabilità del governo afghano”.
Gli errori dell’Occidente
“I conflitti finiscono perché si sconfigge l’avversario o perché si arriva a un negoziato”, conclude Coticchia ricordando “il successo della strategia di controinsorgenza in Iraq dove si è avviato un dialogo con alcuni degli attori che prima attaccavano le forze occidentali, dividendo il nemico”. Condizione necessaria per mettere un freno all’escalation di violenze in Iraq, infatti, era individuare le fazioni “riconciliabili”, facendole sentire “parte della soluzione in Iraq, piuttosto che parte del problema”.
Queste riflessioni in Afghanistan sono mancate, “ripeto: ci si è concentrati solo su una vittoria militare che era difficilissima da raggiungere. Lo stesso generale Vincenzo Camporini – ex capo di stato maggiore della Difesa -, nella conferenza di oggi ha ricordato come in Kosovo, un territorio grande quanto l’Umbria, ci fossero quasi 100.000 soldati. Un’enormità rispetto ai 130.000 presenti in Afghanistan, un territorio grande due volte la Germania. Quindi era evidente da subito, e questo emerge anche dall’analisi dei documenti americani, quanto fosse difficile se non impossibile riuscire a controllare il territorio. Per questo il dialogo con gli attori locali doveva essere un elemento centrale e invece è stato trascurato” e oggi non abbiamo ancora ben chiaro quale impatto potrà avere la vittoria dei Talebani nello scenario globale.
Simona Tarzia
Sono una giornalista con il pallino dell’ambiente e mi piace pensare che l’informazione onesta possa risvegliarci da questa anestesia collettiva che permette a mafiosi e faccendieri di arricchirsi sulle spalle del territorio e della salute dei cittadini.
Il mio impegno nel giornalismo d’inchiesta mi è valso il “Premio Cronista 2023” del Gruppo Cronisti Liguri-FNSI per un mio articolo sul crollo di Ponte Morandi. Sono co-autrice di diversi reportage tra cui il docu “DigaVox” sull’edilizia sociale a Genova; il cortometraggio “Un altro mondo è possibile” sul sindaco di Riace, Mimmo Lucano; “Terra a perdere”, un’inchiesta sui poligoni NATO in Sardegna.