Morti sul lavoro: una strage senza fine. La storia di Lalla Quinti, figlia di una vittima che da cinque anni lotta per ottenere giustizia

In Italia dal 2009 ad oggi si contano 17 mila morti bianche

Arezzo – Ogni anno sono 1.400, 120 al mese e decine di migliaia di questi lavoratori sono deceduti a causa di malattie professionali, solo per l’amianto che causa il mesotelioma pleurico nel 2020 sono morte 7.000 mila persone, 16 al giorno, uno ogni due ore. Le denunce di infortuni sul lavoro nei primi otto mesi del 2021 sono aumentate dell’8,5% rispetto allo stesso periodo del 2020. Una strage che continua, nonostante il calo del 6,2% rispetto al 2020 che peraltro risulta poco significativo perché segnato dal lockdown. In attesa delle misure annunciate dal premier Mario Draghi che prevedono pene più severe e collaborazione all’interno delle aziende per individuare precocemente le debolezze in tema di sicurezza lavoro, si continua a morire di lavoro. Ma continua anche la battaglia di chi ha perso un parente per “morte bianca”, come Lalla Quinti, figlia di Leonardo Quinti, artigiano toscano deceduto durante un sopralluogo di lavoro nella Tenuta Vitereta di Laterina, in provincia di Arezzo. Lalla combatte da cinque anni alla ricerca di verità e giustizia sulle cause del decesso del padre e lo scorso 16 novembre ha deciso di improvvisare un flash mob davanti al Tribunale di Arezzo.

Perché questo flash mob?

Chiedo solo verità e giustizia per mio padre. Chiedo quanto mi è dovuto dallo Stato. Da quel 24 maggio 2016 in cui mio padre è morto sul lavoro, al dolore immane per la sua perdita, si è sommato anche il peso dell’ingiustizia e dell’indifferenza. Da cinque anni chiediamo alla Procura di Arezzo di leggere semplicemente le carte. Di guardare la realtà. E da cinque anni ci sentiamo rispondere che non gli interessa, per loro il caso è chiuso.

Chi era tuo padre?

Mio padre aveva 73 anni, era un artigiano scrupoloso. Era amato e stimato da tutti. La sua bara, il giorno del funerale, è stata portata a spalla per un chilometro davanti a più di duemila persone. Una vita di sacrifici, prima in Olanda e Germania, poi qui da noi. Ha servito migliaia di aziende con lavori in alta quota. E quel 24 maggio 2016 doveva solo fare un preventivo.

Che cosa è successo il 24 maggio 2016?

Era stato chiamato dalla Tenuta Vitereta di Laterina, per cui aveva già lavorato. Avevano bisogno urgente di mettere a posto una gronda, dato che dovevano riaprire le cantine di lì a breve. Mio padre ci era andato in moto. Sarebbe stato uno dei suoi ultimi lavori. Da tempo aveva avviato le procedure per la chiusura della sua storica partita iva. E invece quel lavoro è stato l’ultimo.

Quando mio padre è arrivato nella Tenuta, gli è stata messa a disposizione una scala non a norma. Abbiamo scoperto dopo dalla relazione degli Ispettori del Dipartimento di Prevenzione della ASL che l’azienda che gestiva Vitereta non aveva neanche il DUVRI, un documento obbligatorio che formalizza le procedure di sicurezza sul lavoro per chi come mio padre lavorava lì in appalto. Ci hanno raccontato che è salito sulla scala da solo, senza nessuno che gliela tenesse. E a un certo punto è caduto battendo la testa da una altezza di circa 2-3 metri. Sui tempi e le modalità di soccorso di questo incidente non torna quasi nulla. Ci sono delle telefonate fatte da mio padre a chi lo aveva chiamato per il preventivo, l’ultima alle 10.23, e il cellulare con cui furono fatte quelle telefonate a me restituito nel pomeriggio dai Carabinieri, smontato. C’è l’arrivo sul posto di una automedica alle 11 – perché l’ambulanza chiamata alle 10.43 aveva fatto un incidente – dal quale scende una dottoressa che non fa a mio padre alcuna manovra di rianimazione, indicando la morte come “naturale” da caduta dalla scala, scala tra l’altro rimasta appoggiata sul muro. C’è un testimone che mi ha parlato di formiche sul corpo di mio padre riverso a terra per chissà quanto tempo senza alcun intervento di primo soccorso.

Ma soprattutto c’è la totale assenza degli accertamenti obbligatori per legge davanti ad una morte violenta sul lavoro

Hanno rimosso il corpo senza alcuna verifica sulla dinamica di quanto accaduto, sulle cause del decesso, sui suoi tempi. Nulla. Non c’è un’ispezione cadaverica, non è stata disposta l’autopsia, non c’è alcun riscontro diagnostico. Il certificato necroscopico con indicata la morte “per causa violenta” – fatto fregandosene delle 48 h di attesa dall’evento indicate per legge – non ha attivato alcuna indagine sulle responsabilità di quanto successo.

A noi familiari ci hanno liquidato quel giorno con qualche telefonata. “Tuo padre si è fatto male, ha avuto un incidente, è caduto dal tetto”. In quell’attimo il mio corpo è diventato freddo. Lavorando in ospedale mi sono precipitata a capire dov’era l’ambulanza e solo alla terza telefonata il maresciallo si è fatto coraggio e mi ha detto “tuo padre è morto”.

E dopo che cosa è accaduto?

All’inizio sei pervasa dal dolore, dalla rabbia. Non hai la lucidità per capire che qualcuno deve indagare sulle responsabilità. Pensi solo a gestire ogni incombenza. Dal riconoscimento del corpo alle decine e decine di firme che io, figlia di un artigiano a partita iva morto sul lavoro, ho dovuto fare per sistemare le cose. Mio padre non aveva debiti ma quando muore una partita IVA le incombenze sono tutte sulla famiglia. Lo Stato lo ritrovi rappresentato da interlocutori che vogliono solo chiudere i conti: Agenzia delle Entrate, INAIL, INPS. E mentre passavo il tempo a gestire obblighi che mi erano capitati addosso ho iniziato a farmi delle domande su quanto era accaduto a mio padre.

Con mia madre e mio fratello abbiamo cercato di capire per le vie legali, su cosa stesse facendo la Procura di Arezzo sul caso. Abbiamo persino scoperto che aveva tenuto l’indagine “contro ignoti”, quando le responsabilità sulla sicurezza sul lavoro sono identificate in modo chiaro e obbligatorio in ogni azienda. Abbiamo così acquisito la relazione degli ispettori dell’ASL, alcune testimonianze rese, i pochi documenti del fascicolo di questa inchiesta. Eravamo comunque convinti che ci fossero sufficienti elementi per procedere. Gli ispettori del Dipartimento di Prevenzione dell’ASL avevano scritto nero su bianco che quella scala “non era a norma”, quindi non doveva essere tenuta nelle disponibilità dei lavoratori, in più mancava nell’azienda il DUVRI sulle procedure di sicurezza da tenere con i lavoratori in appalto. Era più che sufficiente per procedere contro il datore di lavoro.

Ma il Gip (giudice per le indagini preliminari) ha invece archiviato il caso un anno dopo,  il 30 gennaio 2017. Come l’avete scoperto?

Ci siamo dovuti rivolgere ad un avvocato e solo grazie al suo intervento lo abbiamo scoperto perché nessuno ci aveva avvisato. Da quel momento abbiamo capito che da soli e facendo affidamento allo Stato non ne saremmo usciti, ovviamente tutto questo comporta moltissime spese, ad oggi abbiamo già presentato tre istanze di riapertura del procedimento, ma la terza ci è stata negata. Per questo motivo ho fatto il flash mob davanti al Tribunale, ma non ci fermeremo qui.

Che farete ancora?

La Procura ha chiesto e ottenuto l’archiviazione del nostro caso sostenendo “che l’utilizzo della scala sia stata una iniziativa autonoma dell’infortunato”, cioè di mio padre. Ma sulla base di quale prova? La testimonianza di una potenziale indagata. Quindi lo scorso 11 ottobre abbiamo presentato l’ultima istanza di riapertura, tramite la nostra avvocata Alessandra Guarini che ha già seguito molti casi di morti sul lavoro, fra cui anche i familiari di Giuseppe Tusa, il marinaio deceduto a causa del crollo della Torre Piloti di Genova. Abbiamo chiesto nuove indagini indicando le anomalie di questo caso, presentato due consulenze: una medico legale dalla quale è emerso che mio padre, cadendo, tentò di attutire l’urto girandosi su un fianco e una tecnica sulla dinamica dell’incidente elaborata dall’ingegnere Francesco Saccia. Inoltre abbiamo messo in discussione, prove alla mano, l’orario dell’incidente. Ma, nonostante questo lavoro molto professionale e approfondito, per la Procura di Arezzo le cause sono state accertate e il caso era e resta chiuso. Ma per me, per noi invece non è così e io mi darò pace solo quando avrò ottenuto verità e giustizia per mio padre.

Giulia Danieli

Giulia Danieli

Svolgo attività di collaborazione giornalistica per RSI, la Radiotelevisione Svizzera Italiana, e ho partecipato alla redazione e alla produzione dei servizi documentaristici sul crollo del ponte Morandi (“43-Il ponte spezzato”) e sulla truffa dei falsi Modigliani (“Il giallo Modigliani”), entrambi andati in onda su Falò, magazine settimanale di informazione e approfondimento di RSI. Collaboro con vari quotidiani digitali sui temi sanità, salute, ambiente e diritti civili. Ho collaborato per il quotidiano Il Secolo XIX.