Via la censura sulle lettere dei condannati al carcere duro, era stata prevista per impedire eventuali contatti con i loro clan
Roma – Basta controlli sulle lettere tra i detenuti al 41-bis e i loro avvocati.
Mentre sta per scadere l’ultimatum al Parlamento sull’ergastolo ostativo – che se non sarà modificato entro maggio verrà dichiarato incostituzionale -, la Consulta torna a intervenire sul regime del carcere duro a cui sono sottoposti mafiosi e terroristi. E a eliminare un’altra restrizione, giudicata in contrasto con la Costituzione.
Si tratta del visto di censura, cioè dell’esame preventivo della corrispondenza tra i detenuti e i loro legali. È incompatibile con la Carta perchè viola il diritto di difesa, ha stabilito la Corte con sentenza depositata oggi.
A sollevare la questione di legittimità era stata la Cassazione, convinta che l’attuale formulazione della norma non lasciasse scampo a un’interpretazione diversa e dunque non potesse essere corretta se non con la cancellazione. Nel diritto di difesa rientra il diritto di comunicare in modo riservato con il proprio avvocato e ne è titolare pure chi è in carcere, anche per potersi tutelare da eventuali abusi delle autorità penitenziarie, sottolinea la sentenza redatta dal giudice Francesco Viganò.
E se è vero che non si tratta di un diritto assoluto e che i detenuti al 41-bis sono ordinariamente sottoposti a incisive restrizioni dei propri diritti fondamentali, per impedire i contatti con i loro clan, tuttavia per la Corte il visto di censura sulla corrispondenza del detenuto con il proprio difensore non è idoneo a raggiungere questo obiettivo e si risolve così in una irragionevole compressione del diritto di difesa. Tanto più se si tiene conto che il detenuto può sempre avere colloqui personali con il proprio difensore, senza alcun limite quantitativo e al riparo da ogni controllo sui contenuti da parte delle autorità penitenziarie. La Corte pone in luce anche su un altro aspetto. Il visto di censura opera automaticamente, anche in assenza di elementi che facciano ipotizzare condotte illecite da parte dell’avvocato. E cosi’ sembra fondarsi su una “generale e insostenibile presunzione di collusione del difensore dell’imputato” e “gettare una luce di sospetto sul ruolo insostituibile che la professione forense svolge per la tutela non solo dei diritti fondamentali del detenuto, ma anche dello stato di diritto nel suo complesso”.
Già dal 2017 tuttavia con proprie circolari il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria aveva escluso la legittimità di ogni controllo sulla corrispondenza tra detenuti in 41 bis e i propri difensori, anticipando così gli effetti della pronuncia della Consulta.
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