Non furono presi provvedimenti per salvaguardare la vita del bambino, ucciso con sei coltellate alla schiena
Firenze – La drammatica storia di Annalisa Landi parte da Sant’Agata, frazione di Scarperia dove la donna abitava con il marito, programmatore informatico, e i loro 2 figli, Michele di un anno e la figlia più grande che di anni ne aveva sette.
Nel settembre del 2018, quando Niccolò Patriarchi in preda a una furia omicida, indotta dalla gelosia secondo quanto emerso dal processo, ha accoltellato con sei fendenti alla schiena il piccolo Michele, uccidendolo, e poi, non contento ha accoltellato la moglie e tentato di gettare dalla finestra la figlia più grande.
Il bambino ucciso con sei coltellate alla schiena
Furono i nonni materni ad avvertire i Carabinieri che una volta arrivati sul posto trovarono il piccolo già morto, la mamma, Annalisa Landi, con ferite alle braccia e in testa, e la figlia, viva ma terrorizzata.
Dai fatti riportati nella sentenza di condanna di Patriarchi a 20 anni di carcere, emerge che prima del giorno della tragedia culminata con l’uccisione a coltellate del figlio, il ferimento della donna e il tentato omicidio anche della figlia di 7 anni, il 14 settembre del 2018, la donna era stata già aggredita tre volte dal compagno, nel novembre del 2015, nel settembre 2017 e nel febbraio 2018, e che avesse sporto diverse denunce.
Non venne presa alcuna misura per difendere la donna e i figli
Nonostante l’apertura di una procedura per violenza domestica e l’indicazione di un esperto che indicava la pericolosità dell’uomo a causa delle patologie di cui soffriva, consigliandone anche un programma terapeutico, durante l’inchiesta non venne presa alcuna misura per proteggere la donna e i suoi figli.
Per questo motivo il legale della Landi, l’avvocato Massimiliano Annetta, aveva presentato un ricorso alla CEDU (Corte Europea dei diritti dell’uomo) contro lo Stato italiano, con l’accusa “di aver violato il diritto alla vita non essendo stato in grado di adottare le misure necessarie alla protezione dei suoi cittadini”
Nel ricorso si legge infatti che: “Nel caso di specie, le autorità italiane benché avvertite della pericolosità dell’uomo, non hanno adottato le misure necessarie ed appropriate per proteggere la vita della Landi e dei suoi figli. L’uomo era affetto da un disturbo bipolare e più volte era stato denunciato dalla compagna a seguito di comportamenti violenti tenuti nei suoi confronti a partire dal 2015 fino alla data dell’accaduto, ma tutti i procedimenti instauratesi a seguito delle querele erano stati archiviati dalle autorità competenti”.
Nel giudicare il caso, la Corte di Strasburgo ha pertanto stabilito che lo Stato ha violato il diritto alla vita della donna e di suo figlio. Nella sentenza i giudici constatano che le autorità avevano il dovere di effettuare immediatamente una valutazione dei rischi di nuove violenze da parte dell’uomo e prendere le misure necessarie a prevenirli. Ma non l’hanno fatto, nonostante sapessero, o avrebbero dovuto sapere, che esisteva un rischio reale e immediato per la vita della donna e dei suoi figli.
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