Libano: Paese al voto tra crisi economica e poche speranze

I candidati in corsa sono 718, dei quali 284 sono membri dell’opposizione o candidati indipendenti

Beirut – Urne aperte per quasi quattro milioni di libanesi, chiamati a eleggere il nuovo Parlamento. In gioco ci sono 128 seggi, rigidamente divisi per confessioni.
Il Paese dei Cedri che si presenta a questa prova elettorale arriva da quattro anni devastanti: un default finanziario che ha letteralmente tolto la luce al Paese, annientato la lira libanese e ridotto sul lastrico milioni di persone; la pandemia, con i suoi contraccolpi economici e sociali; una paralisi politica di oltre un anno e la più grande esplosione nella storia del Paese che nell’agosto 2020 ha sventrato una parte del porto e i quartieri limitrofi nella capitale, uccidendo almeno 220 persone.
Le speranze di cambiamento sono poche e ne sono tutti consapevoli: dai cittadini, inferociti con un sistema di privilegi e corruzione di cui beneficia la ‘casta’ al potere da decenni, agli Stati ‘sponsor’ internazionali, fino al Fondo monetario internazionale (Fmi), chiamato a erogare l’ennesimo finanziamento per salvare uno ‘Stato fallito’, condizionato però a delle riforme che difficilmente vedranno la luce e verranno attuate.

Inizialmente indette per marzo, le elezioni libanesi sono state spostate al 15 maggio dal presidente Michel Aoun, il cui mandato termina a ottobre. A eleggere lui o un suo successore deve essere il Parlamento: trovare un accordo non è mai facile e più tempo ci mette, maggiore è la permanenza al potere per l’attuale capo di Stato.

I candidati in corsa sono 718, dei quali 284 sono membri dell’opposizione o candidati indipendenti. I libanesi della diaspora hanno già votato domenica scorsa: l’affluenza è stata vicina al 60%, come nel 2018, con la differenza che stavolta si sono registrati in 225.000 contro i 90 mila di quattro anni fa.

Cariche statali ripartite in base alla religione

In base agli accordi di Taif che nel 1989 hanno messo fine alla guerra civile, la divisione delle più alte cariche dello Stato così come della rappresentanza parlamentare è rigidamente ripartita su uno schema confessionale: il presidente è un cristiano maronita, il premier un sunnita e agli sciiti spetta la presidenza del Parlamento, mentre i drusi indicano il capo di Stato maggiore dell’esercito. Quanto al Parlamento, musulmani e cristiani hanno 64 seggi per ciascuno: all’interno dei due gruppi c’è un’ulteriore divisione confessionale che vede 27 seggi ai sunniti e 27 agli sciiti, otto ai drusi e due agli alawiti.
All’interno del gruppo cristiano, 34 vanno ai maroniti e il resto a greco-ortodossi (14), greco-melchiti (8), apostolici armeni (5), un seggio per ciascuno a cattolici armeni e protestanti evangelici e un altro alle ulteriori minoranze cristiane. L’attuale maggioranza parlamentare è in mano a Hezbollah e ai suoi alleati e gli analisti non si aspettano grosse variazioni nei numeri. Tuttavia, in uno scenario pressoché immobile da tempo, due sono le questioni aperte che potrebbero avere conseguenze sulla futura compagine di potere: la decisione del leader sunnita Sa’ad Hariri di non partecipare alle elezioni, con il suo invito a boicottare il voto, e il calo di popolarità del Movimento Patriottico Libero (Fpm) del presidente Aoun tra l’elettorato cristiano.

Si è ritirato il figlio dell’ex premier sunnita ucciso in un attentato sul lungomare di Beirut

Il passo indietro di Hariri – figlio dell’ex premier Rafiq, ucciso sul lungomare di Beirut insieme ad altre 21 persone in un attentato imputato a uomini del Partito di Dio filo-Iran, il 14 febbraio 2005 – indebolisce la posizione sunnita in un momento in cui non c’è un erede designato (sia l’attuale premier Najib Mikati che l’ex premier Fouad Siniora si sono chiamati fuori dalle elezioni).
La frammentazione della rappresentanza sunnita è una forte preoccupazione per l’Arabia Saudita, ‘protettore’ della communità in un Paese da sempre terreno di battaglia nella rivalità tra i due grandi campioni regionali, Riad e Teheran.
Il Regno wahabita da tempo è insofferente verso la leadership di Hariri e più in generale verso l’incapacità della dirigenza sunnita di contenere il potere di Hezbollah, con il quale ultimamente Hariri aveva trovato un modus operandi per sbloccare le impasse, irritando però Riad. In un recente editoriale sul quotidiano Al-Hayat, il leader sunnita è stato dipinto come un traditore che “si è gettato nelle braccia aperte dell’Iran”.
Nonostante gli appelli di Siniora ad andare a votare, i sondaggi indicano che solo il 30% dell’elettorato sunnita ne ha l’intenzione (e la partecipazione al voto della diaspora sunnita in Arabia Saudita domenica scorsa non e’ un buon segno, un calo di 8 punti rispetto all’ultima tornata elettorale). Il timore è che nel prossimo Parlamento trovino piu’ spazio deputati si’ sunniti ma disposti a sostenere Hezbollah e i suoi alleati.

L’influenza delle proteste “non settarie” del 2019

Quanto all’elettorato cristiano, il Movimento patriottico libero di Aoun ha fortemente risentito delle ultime crisi, in particolare dopo le forti proteste di piazza nel 2019 alle quali non ha saputo rispondere in maniera efficace. Tra i principali rivali, ci sono le Forze libanesi e le Falangi (Kataeb), dalla cui – riuscita o meno – prova elettorale può dipendere l’equilibrio interno e il successivo schema per le presidenziali. Infine, bisognerà vedere se, e quanto, la rivolta popolare che ha scosso le piazze nel 2019 riuscirà a trovare posto in Parlamento: il fatto che i volti della protesta non siano riusciti a presentarsi uniti, su un progetto o in liste unificate, non aiuta ma con un certo numero di seggi possono comunque avere una qualche influenza su alcune questioni, soprattutto se riescono a costruire alleanze ad hoc con altri blocchi politici.

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