La sentenza d’appello aveva assolto l’ex senatore Dell’Utri e tre ufficiali del Ros, e aveva ridotto la pena al boss corleonese Bagarella
Palermo – La Procura generale di Palermo ha presentato ricorso in Cassazione contro la sentenza del settembre 2021 del processo sulla cosiddetta trattativa tra Stato e mafia. Il provvedimento è Stato sottoscritto dalla procuratrice generale, Lia Sava, e dai sostituti Giuseppe Fici e Sergio Barbiera, che hanno rappresentato l’accusa nel procedimento di secondo grado.
In poco meno di 3.000 pagine, ad agosto scorso, erano state depositate le motivazioni della sentenza di appello con cui la Corte di assise di appello di Palermo, ribaltando il verdetto di primo grado, aveva assolto l’ex senatore Marcello Dell’Utri, gli ufficiali del Ros dei carabinieri il generale Mario Mori, il generale Antonio Subranni e l’ufficiale dei carabinieri Giuseppe De Donno. Con la stessa sentenza, la Corte di assise di appello aveva ridotto la pena a 27 anni per il boss corleonese Leoluca Bagarella e confermato quella per il medico- boss Antonino Cinà. In primo grado – nel maggio 2018 – erano stati condannati a 28 anni di carcere il boss Leoluca Bagarella, a 12 anni Dell’Utri, Mori, Subranni e Cinà, a 8 anni De Donno.
Insensata l’assoluzione di Marcello Dell’Utri
“Contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione con riferimento all’assoluzione del coimputato Marcello Dell’Utri”. È questo il titolo del III motivo del ricorso in Cassazione.
“È necessario focalizzare l’attenzione – si legge nel provvedimento – sull’unica circostanza che separa la pronuncia di condanna del Giudice di primo grado da quella assolutoria del giudice di appello. E quindi, sulla dedotta, da parte del secondo Giudice del merito, mancanza di prova certa che il Dell’Utri abbia effettivamente reso edotto il Berlusconi della minaccia stragista degli uomini di vertice di Cosa nostra, che lo stesso Dell’Utri era stato invece incaricato di veicolare all’importante amico imprenditore, da poco sceso in politica e presto divenuto Capo del Governo. Il diverso convincimento della Corte di Assise di Appello è estremamente lacunoso, quando non anche manifestamente illogico e contraddittorio”.
Secondo la procura generale, “è illogico non dare per scontato, sia pure per implicito, che al riguardo l’interlocuzione fra Berlusconi e Dell’Utri non poteva che essere diretta, riservata ed esclusiva, non potendo, per ovvie ragioni, un tale genere di argomenti essere delegati, dall’aspirante leader politico e di governo, ad altri se non al suo (pluriennale) ambasciatore presso Cosa Nostra. Escludere Berlusconi dai rapporti pericolosi del Dell’Utri con i vertici mafiosi – sostengono i pm nel ricorso -, significa irrazionalmente immaginare che l’odierno imputato Marcello Dell’Utri abbia deciso da solo, senza avvertire il suo dominus, che si stava impegnando a nome dello stesso per il futuro adempimento dei patti. Ma questo è ciò che illogicamente la Corte di Assise di Appello ha sostenuto”.
E ancora: “Immaginare che di questioni di così vitale importanza il Dell’Utri abbia tenuto all’oscuro il Berlusconi è impensabile e, ai fini che qui interessano, è del tutto illogico: si trattava, invero, di questioni che involgevano la sicurezza collettiva, in ragione della sempre incombente minaccia di nuove stragi ( che pure la Corte di Assise di Appello ha ritenuto provata), ma che involgevano anche la tenuta della coalizione di maggioranza, posto che la Lega del ministro Maroni aveva già dato, nel luglio del 1994, un segnale evidente che non avrebbe seguito Forza Italia in eventuali iniziative tese ad attenuare la pressione normativa e governativa sulle organizzazioni mafiose e su Cosa Nostra in particolare”.
Nel ricorso, riguardo all’assoluzione di Dell’Utri, la procura generale è netta: “Non v’è alcun motivo, dunque, che consenta di ipotizzare, contro ogni logica, che il Dell ‘Utri abbia gestito, nell’anno successivo al tragico biennio 1992-1993, il dialogo con il cognato di Salvatore Riina, cioè Leoluca Bagarella, tramite il Mangano, senza mai informare l’amico imprenditore, poi politico in campagna elettorale, e dopo Capo del Governo, di questioni così tanto delicate che – si legge – lo stesso Dell’Utri inevitabilmente gestiva con i mafiosi non come Marcello Dell ‘Utri, ma come canale di collegamento con colui (Berlusconi) che aspirava a governare il Paese. Non è dato comprendere perché il Dell’Utri, navigato ed esperto uomo di confine fra l’associazione criminale denominata Cosa Nostra e le alte sfere dell’imprenditoria nazionale per anni e, poi, amico scomodo del Presidente del Consiglio, uomo comunque di straordinaria intelligenza straordinaria capacità, si sia tenuto per sé il messaggio ricattatorio dei vertici mafiosi non riportandolo al destinatario finale, che era colui per il quale si era interessato per la tessitura di un accordo elettorale, poi andato a buon fine”.
“In altri termini, è inimmaginabile – conclude la Procura generale – che il Dell’Utri abbia bluffato con mafiosi di quel calibro, non rappresentando mai al destinatario finale quali potevano essere gli intendimenti dei suoi interlocutori”.
Intenti solidaristici del Ros? Per la Procura è illogico
“Si rileva che il giudice d’appello ritiene insussistente l’elemento soggettivo del reato ritenendo, in primis, che gli ufficiali dei carabinieri, odierni imputati, abbiano agito poiché mossi da intenti “solidaristici”… D’altra parte, la stessa Corte di Assise di Appello in altra parte della motivazione ha contraddittoriamente formulato, escludendo i presupposti del riconoscimento dell’esimente per aver agito i Carabinieri del Ros in stato di necessità, condivisibili argomentazioni indicative della sussistenza in capo ai tre odierni imputati del dolo di minaccia, subito però contradette da illogiche considerazioni di segno contrario”.
Così si legge nel ricorso per cassazione della Procura generale, nella passo che parla dei carabinieri del Ros.
Analizzando il passaggio delle motivazioni con cui i giudici di secondo grado hanno escluso il dolo di minaccia a corpo politico dello Stato (da parte dei 3 ufficiali), la Procura lo ritiene illogico contraddittorio.
“E per quanti sforzi abbia fatto il giudice di appello a trasmettere segnali evidenti di una significativa differenza fra i due concetti testè menzionati (condizione e mezzo) il tentativo ha consegnato alla motivazione argomenti evanescenti, illogici e contraddittori deve escludersi che possa essere riconosciuto un fine solidaristico a chi ha in origine contribuito alla fase genetica dell’estorsione e, poi, si è messo a disposizione della vittima per agevolarlo sull’ammontare della richiesta e sui tempi dell’adempimento; così come, analogamente, deve escludersi il fine solidaristico in chi ha sollecitato i vertici di Cosa Nostra a far sapere cosa volessero per recedere dalla strategia stragista”.
Se quindi è escluso – per la procura generale – “l’illogico richiamo al fine solidaristico, il dolo è coscienza e volontà dell’azione”, allora “i Giudici dell’appello non hanno fatto buon governo della legge penale, sostenendo che per gli esperti Militari dell’Arma deve escludersi l’elemento soggettivo del contestato reato di minaccia a Corpo politico dello stato; posto che gli stessi avevano certamente previsto le richieste contra/Legem poi avanzate dagli esponenti di Cosa Nostra e dirette ad attentare alla libera autodeterminazione del potere esecutivo“.
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