Cheerleaders, sorelle, underdog e suffragette

Da love me tender a love me gender

Giusto tre giorni fa sono rimasto letteralmente fulminato da un articolo pubblicato a piè di pagina da “Il Secolo XIX” vergato da tale Luca Bottura. Senza dubbio una donna visto, che nome e cognome finiscono con la lettera a, e tenendo conto della perfidia dello scritto. Sin dal titolo: “Love me gender”, che ricorda uno straordinario successo anni Cinquanta di Elvis Presley, Love me tender, amamai teneramente.

E ho pensato che, magari, con un regio decreto, pardon, con un decreto ministeriale del dicastero delI’Istruzione, Merito e Transizione linguistica con un colpo di spugna fossero stati cancellati dalla lingua scritta italiana – e non solo quella – gli articoli femminili con istantanea ricaduta su nomi, pronomi, aggettivi. Unici a salvarsi gli avverbi, invariabilmente neutri, perciò garantiti perchè nè maschili nè femminili. Veri e propri precursori, insomma, di una semplificazione della lingua italiana. Inesorabilmente fluidi.

Così ho cercato notizie sull’Accademia della Crusca, quella che ha sdoganato “petaloso”, ma anche di “esci il cane” e di “docciarsi”, di “esodato” e di “freezare”; ma anche di “metaverso” e di “memare”. Niente a che fare con il famigerato Zingarelli che qualche giorno fa ha deciso di comprendere fra i suoi vocaboli della lingua italiana la parola tutta genovese “macaia”, per ora ancora femminile, pur riferendosi a un vento. Maschile- il vento – per cui non è detto che nei prossimi giorni anche lo Zingarelli non si adegui e consigli di usare…il macaia.
Già, macaia: con il significato di: “tempo umido o afoso, con cielo coperto e vento di scirocco, tipico del golfo di Genova”.

Ma l’Accademia della Crusca è riuscita ad illuminarmi solamente sulla questione in questione con la tipica ambiguita che un tempo veniva attribuita soprattutto ai democristiani, e facendo notare che entrambe le forme sono corrette e nessun linguista potrebbe affermare che una delle due è sbagliata o impropria. Nessun obbligo dunque, la lingua italiana non vieta di utilizzare il maschile per riferirsi a cariche ricoperte da donne. Perciò il presidente e il premier. E mai e poi mai la presidenta e la premiera. Ma nemmeno la presidente e la premier. Giorgia in fondo ha sempre ragione.

Così ho capito che lo scritto di tala Luca Bottura utilizzava un espediente per un articolo satirico. E che poi Bottura è un uomo quindi un tale. E, ti pareva. Ed è addirittura un collega giornalista, scrittore, conduttore radiofonico e autore televisivo che ha scritto fra l’altro “Mission to Marx, dizionario satirico della sinistra”. Insomma chi meglio di lui, in tema di pari opportunità, per perculare almeno un po’ la, pardon, il neo presidente del Consiglio in vena di mostrare a tutti gli attributi? La prova provata che di riffa o di raffa le pari opportunità esistono veramente. E quindi mi sono rasserenato… nessun golpe o colpo di stato nella lingua italiana che mettesse fuori legge e in qualche modo deportasse nomi, pronomi ed aggettivi al femminile. Al fine di eliminarli.

L’ambiguità del termine cheerleader

Nessun golpe. Anche se poi mi sono dovuto concentrare su quell’inizio –  e nonostante quell’inizio – minaccioso, a tracciare un solco cultural/sociale. Su quell’avvertimento alle Ue: “Non sarò mai la cheerleader di nessuno difendo l’interesse dell’Italia”. Che poi la cheerleader sta per ragazza che organizza il tifo e intrattiene il pubblico prima dell’inizio e nelle pause di una competizione sportiva con elaborate coreografie  composte da movimenti di danza, esercizi ginnici e acrobatici.

E anche in questo caso si potrebbe discutere sulla scelta della simbologia volutamente, o forse no, sessista. Con quella scivolata sul ruolo delle ragazze a cornice di uno spettacolo sportivo tutto maschile e a beneficio della maggioranza maschile. Cheerleader che del resto da noi ed in Europa suona come e sinonimo di ragazze ponpon.

Tutto avrebbe potuto essere evitato se al posto delle fantomatiche cheerleader avesse tirato in ballo il “ruffiano” di turno limitandosi a proclamare: “Non sarò mai il ruffiano di nessuno” con tutto quel che ne consegue. Una sorta di scivolata, a esternare una sorta di eccessiva mascolinità, come l’eccessiva confidenza con cui si è rivolta al deputato di colore di turno. Anche se poi ha chiesto scusa.

Il sospetto a questo punto è che il premier come in trance agonistica abbia il desiderio di dimostrare  a tutti i costi di avere gli attributi. Che, se non altro, potrebbe essere solo un fatto di predisposizione mentale e non di annessi e connessi. Del resto il partito di appartenenza fa dalla fondazione “Fratelli d’Italia”.

Fratello, sostantivo maschile, anche se poi per estensione il significato potrebbe essere ampliato superando il genere andando ad indicare “una comune condizione spirituale, civile, religiosa; compagno; f. di sventura; Fratelli d’Italia l’Italia s’è desta. L’incipit del canto degli Italiani che, probabilmente, deve aver ispirato i “patrioti” fondatori del partito della Meloni fuori usciti dalla casa delle Libertà in cui si trovavano oppressi da Re Silvio.

Tanto che, comunque nell’epoca delle pari opportunità, il piu delle volte solo annunciate e mai praticate – sostanzialmente una sorta di mediazione tra narrazione, marketing e questioni di principio – qualcuno aveva perfino suggerito di mantenere pur sempre la fiamma tricolore, ma di cambiare il partito in Fratelli e Sorelle d’Italia. Con un fantasmagorico acronimo F&SdI.

Ma il presidente, proprio il primo Presidente donna del Consiglio, la prova provata ed evidente che le pari opportunità esistono e si conquistano e non si chiedono soltanto, ha dimostrato andare dritta per la sua strada e non innovare un simbolo che vecchio o nuovo, politically correct o no, si è dimostrato vincente.

Tanta praticità, lasciatemelo dire, tanto maschile e poca progressione al sogno, molto femminile. Come dicevano in pratica gli allenatori di calcio di una volta: “Squadra che vince non si cambia”. Con necessaria concessione al marketing e quelle sedici donne citate pubblicamente. Tutte chiamate familiarmente con il nome di battesimo. Fino all’ ultima dell’elenco ma non l’ultima, Chiara Corbello Petrillo, proclamata serva di dio dalla chiesa nel 2018.

Romana madre di due bimbi non sopravvissuti per malformazione. Chiara morì ad appena 28 anni. Rifiutò di curare il carcinoma che l’aveva colpita per dare alla luce il terzo figlio che portava in grembo. Sedici donne che hanno costruito la scala, gradino per gradino che le hanno consentito di infrangere il tetto di cristallo. Già, sono Giorgia, sono una donna, sono una madre, sono italiana. Ottima propaganda.

La bella favola dell’underdog

E comunque donna, ma con gli attributi. E soprattutto underdog. Parola inglese che sta per perdente. Sconfitto secondo i pronostici, che, comunque a sorpresa e con abnegazione sovverte il risultato riuscendo ad affermarsi. Figura retorica che si rifà a Davide e Golia, molto importante nella cultura anglosassone. Originariamente un composto da “under”  (sotto) e “dog” (cane) e stava ad indicare il cane perdente nel combattimento.

Il tutto strettamente connesso al “sogno americano”, il benessere, raggiungibile anche da coloro che sono poveri e deboli. Unica ricetta il lavoro duro. Un’altra bella invenzione,  nè più nè meno di quell’altra che va a braccetto con il sogno americano delle seconde possibilità, che dopo il fallimento, grazie all’impegno e alla volontà ti riportano in alto.

Percio la neopremier fa leva sul mito della ragazza umile che ce l’ha fatta con tanto sudore ma partendo dal basso e superando ogni difficoltà. E nel discorso di insediamento dimentica i suoi 16 anni trascorsi nei palazzi del potere romano, magari relegata all’opposizione, magari anche no. Prima, nel “2006 , neanche trentenne, come vicepresidente della camera dei deputati, poi dal 2008 al 2011 giovane ministro, appunto per la gioventù. Come una trentunenne risolta e non mammona che si raccomandi. In grado di portare uno stipendio a casa. E comunque a Montecitorio ininterrottamente dal 2006 ad oggi per ben cinque legislature. Insomma sarà stata dura, ma ha investito nella politica e la politica le ha dato da vivere.

E, a mio modesto parere, non credo che si stato un passo avanti o indietro all’uomo alfa. Peggio… ne ha assunto gli atteggiamenti e gli attributi che altri parlamentari del sesso forte in molti casi hanno dimostrato di non avere conclamando una mancata leadership. Del resto, per tornare alle ipotesi iniziali di Bottura, risolte poi dalla Crusca, il cognome di Letta finisce con la a….

Poi c’è anche chi in questa assunzione di attributi ci scopre una rivoluzione cosmica sino a privilegiare tout court il merito, altra parola chiave. La mia amica social Barbara Barattani, per esempio ne fa giusto una sorta di consapevolezza di merito, scissa dall’orpello del femminile a tutti i costi.

A suo modo rivoluzionaria, dunque, e scrive: “Insomma…se dovessi analizzare quel “il Presidente “, io che sono una femminista del secolo scorso , ma che i reggiseni non li ho mai bruciati in piazza perché costano troppo e   comunque,  hanno il loro perché…sempre e da sempre contraria alle quote rosa, ma con il desiderio di non vedere più alcun soffitto, di qualsiasi materiale esso sia, perché le nuove generazioni di donne abbiano percorsi meno patriarcali di quelli su cui abbiamo camminato noi, ecco, dicevo quel “il” che racchiude la sostanza dell’Istituzione,  perché dobbiamo declinarlo al femminile per farlo nostro, perché non pensiamo, per una volta, di essere brave a sufficienza per essere la sostanza di quell’Istituto, senza doverlo modificare nella forma, perché siamo talmente brave, abbiamo studiato talmente tanto,  abbiamo corso sempre con una marcia in più che non abbiamo bisogno di modificare un articolo determinativo,  perché possiamo tranquillamente essere il presidente,  il dottore, l’ingegnere e l’avvocato, siamo forma e sostanza a pari merito, non abbiamo più bisogno di modificare niente…”.

Quel “collegio” a Montecitorio

Affascinante quindi la storia dell’underdog collegata al merito, al sudore, magari anche all’acquisizione di certi metodi che in politica finiscono per risultare consuetamente utilizzati. Il potere dell’esperienza e di potere studiare per sedici anni dentro al palazzo. Magari come una studentessa modello del “Collegio” di Montecitorio, con Silvio Berlusconi come Preside Benito Ignazio La Russa come insegnate di ginnastica e Matteo Salvini come compagno di banco.

E comunque collegio o no, attributi o non attributi, donna o non donna, uomo o semplice virago, c’è sempre chi la getta sul fattore estetico risalendo alle scarpe come oscuro oggetto di desiderio, ma non solo. Discettando di piedi, unghie smaltate, tacchi e sandali e di fantasie sessuali, sessiste e machiste.

Scrive la mia amica social Angela Agostini sottolineando la praticità del primo presidente del Consiglio donna: “UNA LEADER IN MOCASSINI

I tacchi indossati da Giorgia Meloni alla cerimonia del giuramento sono stati  sostituiti, appena il giorno dopo, da mocassini scuri, a mala pena camuffati dall’orlo dei pantaloni di un severo completo scuro adatto ad un Premier che sfila davanti al picchetto d’onore prima di insediarsi a Palazzo Chigi.

La scelta delle calzature è in linea con la personalità della Presidente, che anche in campagna elettorale si è presentata spesso con  scarpe sportive,  oltre che per comodità, anche perché i suoi argomenti, sfoderati con l’usuale fervore, non avevano bisogno di essere sottolineati dall’eleganza dell’abbigliamento.

Nel panorama delle vip tirate a lucido da bisturi esperti,  vestite con colori fosforescenti e traballanti su tacco 12,  la semplicità di questa giovane donna stupisce e rinfranca.

Qualche anno fa una manager di successo, mi pare fosse Marisa Bellisario, nell’ambito di un dibattito dedicato alle donne in carriera, affermò che se le donne non avessero i tacchi farebbero molta più strada.

E Giorgia Meloni di strada ne ha fatta tanta,  certo non solo per merito dei mocassini, come voleva significare l’aforisma citato.

Ma noi donne sappiamo che quando le  estremità non sono stressate anche i neuroni funzionano meglio 😏…”.

E in coda, messi da parte tacchi e voluttà femminile, c’è già chi si domanda come, in presenza di cotanti attributi, verrà presentato a corte il marito Andrea Giambruno, che raccontano come persona e collega molto riservato. Insomma se nel circolo ristretto sarà semplicemente Andrea, o il “first gentleman” o ancora il principe consorte.

E infine ci sono le suffragette

Comunque al di là dei problemi di denominazioni e presentazioni, la ricetta da seguire sarà quella di abolire i tacchi e calzare mocassini e sneakers, anche tra lavoro e serate dio rappresentanza e di gala. Tanto per non stressare i neuroni, con tanti saluti alla voluttà femminile su cui Giorgia, donna, madre italiana palesemente non conta. Voluttà che, al contrario, almeno in qualche caso ha scandito la carriera e i successi di prime donne, parlamentari, igieniste dentali, nipotine di Mubarak, personaggi da prima pagina o ormai ministre, oppure ministre mancate. Era giusto la metà degli anni Novanta. Giusto cercare di andare oltre, magari mettendo il copyright dove, come cantavano Sabrina Salerno e Jo Squillo, pur senza incappare sotto al severo cannoneggiamento del politically correct che ha rischiato di abbattere il povero Francesco Baccini, “Oltre alle gambe c’è di piu”.

Ed è a questo punto che entrano in campo le suffragette, originariamente le donne che appartenevano al movimento di emancipazione che intendeva ottenere il diritto di voto. Con evoluzioni sino ai giorni nostri, dopo 70 anni di diritto di voto, ideologhe delle quote rosa a tutti i costi, magari anche a discapito del merito. Con tanto di lotte a coltello, donna contro donna, e nonostante la tanto proclamata solidarietà femminile, per il classico posto al sole.

E qui mi viene ancora in soccorso la mia amica social, donna, Barbara Barattani spettatrice di Porta a Porta del martedì dove sono ospiti la senatrice Licia Ronzulli, esponente del partito del cavalier Silvio alla quale proprio Berlusconi aveva promesso un dicastero, e la rappresentante di Azione Raffaella Paita fresca di trasloco da Montecitorio a palazzo Madama. Donne, solidali, e come se non bastasse pure rappresentanti di due coalizioni differenti che pur non alleate in molti casi si sono perlomeno annusate. E a lungo. Dal patto del Nazareno in avanti, dunque molto complici.

E Barbara, con perfetta acutezza tutta femminile, lapidaria, se ne esce con un post: “Ma lo sguardo della Paita mentre parla la Ronzulli non è impagabile?😊”. Eggià, come in un vecchio refrain: donne che odiano le donne.

E così, magari giusta lode a “Il premier” o a “Il Leader” del centro destra tutto. Che sembrerebbe aver messo tutto in preventivo e si avvia al bilancio di questi giorni spossanti. Che magari ha inventato un genere tutto nuovo, quello del politico con gli attributi, donna o maschio che sia. A meno che non abbia ragione proprio il o la? Luca Bottura che termina così il suo “Love me gender”: “Va da sè che se il Meloni predilige essere apostrofato con attributi maschili, analogo privilegio deve poter essere concesso a chiunque ritenga di essere uomo benchè nato donna, o viceversa. Il dato quindi definitivo del scelta del presidente del consiglio è che, decidendo di presentarsi al mondo con un veste maschile, ha sdoganato il genere fluid. Speriamo che nessuno lo dica al ministro contro la parità di genere, Eugenio Roccella”. E quindi, almeno in teoria, tutti perfettamente eguali e con gli stessi diritti e doveri, senza badare al genere. Almeno in linea di principio

Tutto benissimo. Terminerei soltanto proponendo un’ultima acclamazione, visto che la maggioranza è stata raggiunta anche in Senato. Viva Giorgi… viva il Repubblica, viva il Costituzione, viva gli avverbi. Neutri, per antonomasia.

Paolo De Totero

Redazione del quotidiano digitale di libera informazione, cronaca e notizie in diretta