Per capire come si fa il fact cheking di un conflitto in atto abbiamo incontrato John Helin, fact checker che scandaglia la rete per il quotidiano Helsingin Sanomat
Helsinki – Raccontare una guerra in diretta senza abboccare alle fake news. È questo il lavoro di un esperto di OSINT, la persona che, in quesito caso all’interno di una redazione, ricerca e analizza le informazioni provenienti dalle fonti “aperte” disponibili in rete.
Ma come si fa a smentire la propaganda usando l’Open Source INTelligence? E come si analizza la miriade di video e foto che ci raggiungono nelle nostre case dal fronte? Ci arrivano davvero dalla prima linea? A che ci serve la geolocalizzazione?
Lo abbiamo chiesto a John Helin, il fact checker che scandaglia la rete per il quotidiano Helsingin Sanomat e che abbiamo incontrato in Finlandia nel corso di un workshop organizzato dall’Ordine dei giornalisti ligure all’interno di un percorso di formazione internazionale finanziato dal programma Erasmus+.
“La guerra in Ucraina è una guerra di informazione. Si vedono tantissimi filmati dal fronte, cosa che non è successa per altri conflitti. Questo significa anche che i canali dei social media si riempiono di informazioni poco attendibili o del tutto fasulle e vengono bombardati di notizie che possono influenzare il modo in cui le persone percepiscono questa guerra”.
Lo spiega Helin sottolineando che “a volte si tratta di uno sforzo degli stessi attori statali” che in questo modo fanno propaganda, “altre volte sono gli utenti dei social che commettono errori” e aiutano a diffondere questi contenuti farlocchi.
E la guerra in Ucraina ci ha regalato tanti esempi di informazioni manipolate. Pensate al caso del “Fantasma di Kiev”, il supereroe pilota di caccia che non è mai esistito. Una bufala rilanciata nientemeno che dal Times.
E in effetti è davvero difficile smascherare la guerriglia di fake news messa in atto da entrambe le parti su questo conflitto.
I social media, ancora, hanno un ruolo enorme nel diffondere confusione e falsità. Lo conferma anche Helin che dice: “Le narrazioni sui social media raccontano alla gente come sta andando questa guerra, modellano l’opinione pubblica e sono utilizzati anche dai politici e dagli attori statali. L’Ucraina, ad esempio, usa i social media per mantenere vivo l’interesse del pubblico occidentale sulla guerra. Twitter, Instagram, Tik-ToK e Facebook giocano un ruolo enorme in questo scontro”.
Per tenere sotto controllo la situazione esistono, però, degli strumenti. Si parte dal tracciamento di navi e aerei che si può seguire gratuitamente su fightradar24 o su Marine Traffic, un sito che abbiamo utilizzato anche noi per seguire gli spostamenti delle “navi delle armi”, i cargo ro-ro della compagnia Bahri.
Poi “ci sono Google Earth e le immagini satellitari. Possiamo controllare se una foto è stata editata con Photoshop, se un video è stato manomesso o se è già stato pubblicato”, elenca Helin che poi si sofferma sulla cosiddetta “ricerca inversa“, quella cioè che ci permette di individuare rapidamente tutte le pagine dove è stata pubblicata l’immagine che vogliamo sottoporre a fact checking. Per farlo ci viene in aiuto TinEye, un software che ci mostra proprio i risultati più manipolati digitalmente, più vecchi e più recenti.
A questi si aggiungono i tool per la geolocalizzazione di foto e video.
“Probabilmente ho lavorato su tutti i di filmati di questa guerra” ci racconta Helin aggiungendo qualche esempio come “i recenti attacchi con i droni sul Cremlino, ho fatto la geolocalizzazione dei video di Buča, di altri siti di crimini di guerra, e dell’offensiva di Kharkiv, semplicemente localizzando dove andavano le truppe ucraine”.
Una miriade di filmati e le contromisure non sono semplici. Soprattutto perché “entrambe le parti hanno imparato bene come fare propaganda” e “il problema più grande è che spesso non si può dimostrare che un’informazione sia falsa”.
In che senso? Ci risponde Helin che “i video che arrivano sul mio tavolo spesso non possiamo verificarli e restano nell’area grigia del non so, potrebbe essere falso. Ma se non si può verificare, allora non si stampa“. È qui che entra in gioco il fact checking, la verifica dei fatti, come si fa al giorno d’oggi.
Per capire meglio, gli chiediamo cos’è che impedisce di stabilire con certezza se un video è falso? Semplice, ribatte Helin, “un modo per falsificare questi video è girarli in un luogo non riconoscibile. Se c’è solo una foresta dietro di te allora non ci sono punti di riferimento che si possano mettere su una mappa per effettuare la geolocalizzazione. Se vi trovate in una stanza, allora non ci sono punti di riferimento da mettere sulla mappa. Se ci sono attori e non è possibile verificare che si tratti di attori. Questo è il tipo di filmati falsi che stanno uscendo ora e tu come giornalista devi pensare che potrebbero essere falsi, quindi non puoi usarli. Grande parte del mio lavoro oggi consiste nel dire: non posso sapere se è vero e quindi non dovremmo usarlo“.
Simona Tarzia
© riproduzione riservata
Sono una giornalista con il pallino dell’ambiente e mi piace pensare che l’informazione onesta possa risvegliarci da questa anestesia collettiva che permette a mafiosi e faccendieri di arricchirsi sulle spalle del territorio e della salute dei cittadini.
Il mio impegno nel giornalismo d’inchiesta mi è valso il “Premio Cronista 2023” del Gruppo Cronisti Liguri-FNSI per un mio articolo sul crollo di Ponte Morandi. Sono co-autrice di diversi reportage tra cui il docu “DigaVox” sull’edilizia sociale a Genova; il cortometraggio “Un altro mondo è possibile” sul sindaco di Riace, Mimmo Lucano; “Terra a perdere”, un’inchiesta sui poligoni NATO in Sardegna.