Contro tutti i pronostici, il prossimo 25 gennaio inizierà il processo agli ex comandanti che si sono succeduti ai vertici del poligono militare di Teulada.
Il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Cagliari, Giuseppe Pintori, ha infatti rinviato a giudizio Giuseppe Valotto, Claudio Graziano, Danilo Enrico, Domenico Rossi e Sandro Santoni per disastro ambientale doloso, nonostante il pm, Emanuele Secci, lo scorso 22 settembre avesse chiesto il non luogo a procedere per i cinque generali.
Era la seconda volta che il pm sollecitava la chiusura del caso. La prima volta chiedendo l’archiviazione del fascicolo in fase d’indagine. Finì con l’imputazione coatta da parte del Gip, Alessandra Tedde per disastro ambientale e lo stralcio in altro procedimento per l’ipotesi di omicidio colposo plurimo (per il quale il Generale Graziano è già stato prosciolto)
Le indagini
Non che le evidenze del disastro ambientale, operato sul suolo del poligono, manchino nei 13 faldoni che compongono 7 anni di indagini. Al contrario. Un esempio è dato dal prospetto che il 1° Reggimento corazzato ha fornito agli inquirenti, secondo il quale sulla penisola Delta, zona di arrivo colpi, dal 2008 al primo semestre del 2016, sono piovuti 860 mila colpi, corrispondenti a circa 556 tonnellate di residui bellici. Più 11 mila missili Milan, con il loro carico di torio radioattivo.
La prima ordinanza di sicurezza per l’impiego dei Milan è del 2003 ed è vincolante “per la sicurezza del personale e la salvaguardia ambientale”. Fra le norme che prescrive c’è la chiusura delle aree bersaglio a personale non formato, la presenza di un Responsabile della radioprotezione per la raccolta del materiale residuo e l’utilizzo di precisi dispositivi di protezione individuale. Soprattutto prevede la bonifica delle aree e i rilevamenti di contaminazione del terreno.
Nonostante il passare degli anni (e le nuove comunicazione date sui pericoli derivanti dalle particelle di torio) nella penisola Delta tutto questo non avviene. A dirlo è lo stesso procuratore Secci negli atti della sua inchiesta: “Le immagini satellitari – scrive – ritraggono una discarica non controllata con 30mila crateri sino a 19-20 metri di diametro. Sulla superficie tonnellate di residuati contenenti quantità di inquinanti in grado di contaminare suolo, acqua, aria, vegetazione e animali.”
La Penisola interdetta
Audito in Commissione parlamentare sull’uranio impoverito il 5 ottobre 2017, Secci dichiara: “Con riferimento alla penisola Delta, si dice che è una zona rispetto alla quale non è previsto che si debba procedere a bonifica, per ragioni di convenienza economica, oltre che per la pericolosità di tale operazione.”
La penisola Delta è una zona interdetta. Quale provvedimento legislativo l’abbia dichiarata tale, sciogliendola dal vincolo delle bonifiche, non è dato saperlo. “Non abbiamo trovato un provvedimento genetico da cui derivi l’interdizione di quest’area – dichiara ancora Secci – c’è un decreto ministeriale che dal 2009 obbliga le amministrazioni militari quando effettuano esercitazioni a ripulire ciò che sporcano. Non è prevista nessuna eccezione del tipo ‘fatti salvi i poligoni che hanno una penisola interdetta’“.
Il controsenso è che proprio l’interdizione della zona stava alla base della sua richiesta di non procedere: non essendo accessibile – era la tesi del pm- non costituiva un pericolo per l’incolumità pubblica. Difficile immaginare come possa svilupparsi il processo, se questo è il pensiero dell’accusa.
La penisola Delta non è l’unica zona dove sono stati abbandonati i residuati delle esercitazioni. Nel corso delle indagini sono state ritrovate due discariche abusive in località Is Pulixi, della grandezza di circa due ettari, e nell’area dunale di Porto Tramatzu. In entrambi i casi, la stratificazione del materiale, abbandonato in cumuli di 3/4 metri, non permette di risalire ai responsabili.
Si bonifica per ricominciare
Che sia per la pressione esercitata sui comandanti del poligono o, come riporta un documento della Corta dei Conti, per la mutata sensibilità ambientale all’interno delle Forze Armate, il 15 dicembre scorso l’amministrazione della Difesa ha presentato una Valutazione di Incidenza Ambientale per un progetto di “bonifica” della Penisola Delta, fino a quel momento dichiarata “imbonificabile”.
E’ un documento che, al di là di come andranno le sorti processuali, dice molto sullo stato dell’arte. Ammette che “non si dispone di un elenco del materiale impiegato in loco a partire dal 1959”. Ossia da quando si è iniziato a sparare sulla Penisola Delta, un un territorio di 2 milioni e 914mila metri quadrati. Non stima quantità e qualità del materiale da raccogliere (compreso l’inesploso); non prende in considerazione l’inquinamento radiologico; non presenta un crono programma o un piano economico; e soprattutto non prevede una struttura di controllo esterna al mondo militare. Una bonifica “fatta in casa” che ha come fine quello di “consentire il normale transito in sicurezza e l’utilizzo futuro dello stesso quale zona bersaglio per arrivo colpi.” Si bonifica, per ricominciare a sparare.
Un’assurdità, specie se si considera che il poligono di Teulada ingloba due siti di interesse comunitario, quello di Isola Rossa e gli Stagni di Porto Pino, per i quali l’Unione Europea ha già avviato una procedura d’infrazione. Per ora è stata messa in mora, ma se verremo meno all’obbligo di preservare questi ambienti, dovremo pagare.
La stroncatura della Corte dei Conti
Per avere un’idea di cosa significhi veramente bonificare la penisola Delta ci si può rifare all’operazione Pasubio che dal 2017 ha provveduto a creare dei corridoi, sicuri, di accesso alla zona, altrimenti impraticabile. L’Operazione Pasubio ha pulito in 7 anni 41 ettari, corrispondenti a 1/70 dell’area interessata, raccogliendo 235 ordigni e 17 tonnellate di materiale. Se si mantenesse la stessa proporzione per tutta la superficie, diventerebbero 15 mila ordigni e mille tonnellate.
Significativo a questo proposito il giudizio dato dalla Corte dei Conti, espresso nel suo linguaggio paludato, su quanto fatto fino ad ora:” Va constatato – scrivono i giudici contabili – che l’avvio della loro realizzazione (le bonifiche, ndr) ..avrebbe potuto essere gestito in maniera maggiormente proattiva e, a fronte di difficoltà invero non insormontabili, ricevere maggiore impulso, onde limitare comunque i tempi di attuazione delle azioni previste dalle nuove norme. ”
Chiara Pracchi
Giornalista per passione, mi occupo soprattutto di mafie e di temi sociali. Ho collaborato con PeaceReporter, RadioPopolare, Narcomafie, Nuova Società e ilfattoquotidiano.it.
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