La frana delle 22:39 che cancellò la città di Longarone e ne sterminò gli abitanti insieme a quelli di Erto e Casso, fu un vero e proprio crimine
Scrivere del Vajont è un’operazione difficile perché il tempo passa e i fatti che rimangono sono 1917 vittime e una condanna a 5 anni per l’Ing. Alberico Biadene, 3 condonati per buona condotta. Nel racconto di uno straordinario Marco Paolini, che Carlo Freccero mandò in onda il 9 ottobre del 1997 in prima serata su Rai Due e che fece sperare, per qualche attimo almeno, in un cambiamento nei contenuti della televisione pubblica, l’Ing. Biadene, uomo senza scrupoli attorniato da tecnici compiacenti, risultò uno dei maggiori responsabili di questo immane omicidio. Perché di questo si tratta. Qual è il peso dell’allora Ministro dei Lavori Pubblici Giovanni Pieraccini che fece mettere agli arresti domiciliari il Sindaco di Longarone per procurato allarme? Apparentemente nessuno. Certo è che quella notte del 9 ottobre 1963 vide tra le vittime il sindaco e i carabinieri che controllavano la sua casa.
Carolina Teza
Quando Carolina Teza decise di rompere il suo lungo silenzio, erano già trascorsi 40 anni dalla notte che avrebbe segnato la sua vita e quella di molte altre persone. Quattro decenni di dolore e sofferenza, ma anche di ingiustizia e negazione delle verità più evidenti, quattro decenni di silenzio delle vittime, che portavano ancora le conseguenze di quella notte di orrore in cui sembrava che il mondo stesse per finire. Verso gli altri, era preferibile fingere di aver voltato pagina: nascondevano persino la loro condizione di vittime, fuggivano dagli sguardi di compassione e persino di disprezzo.
“Mi sono detta: no, no, no, questo deve finire. Ciò che deve avere una fine è tutta questa serie di bugie.
Carolina Teza decise di combattere con tutte le sue forze contro questa situazione il giorno in cui sentì annunciare al telegiornale che si metteva fine alla storia del Vajont con il contributo del governo di 77.000 milioni di lire per i sopravvissuti…”Mi sono detta: no, no, no, questo deve finire. Ciò che deve avere una fine è tutta questa serie di bugie. Bugie che, insiste, erano cominciate subito dopo la tragedia: all’opinione pubblica si era detto che era stata “una catastrofe naturale.
Questo silenzio è stato molto comodo per i colpevoli e per le autorità: l’unica verità è stata quella istituzionale. Hanno fatto sapere agli italiani solo ciò che volevano… non ciò che è veramente accaduto”.
La storia del Vajont è una delle tragedie più oscure e dolorose nella storia italiana, un capitolo nero che molti preferivano dimenticare.
La diga del Vajont creava un bacino di 150 milioni di metri cubi per la produzione di energia elettrica. Lasciava a lato le città di Erto e Casso, gravemente colpite dalle espropriazioni, e di fronte a essa, a meno di 1 km in linea retta, la piccola e dinamica città di Longarone.
Ma fin dall’inizio furono annunciati i problemi. Alcuni studi geologici precedenti ai lavori avevano chiaramente indicato che non era sicuro creare un serbatoio in quella valle, poiché il terreno della sua sponda sinistra, chiamato Monte Toc, era molto instabile. Il Toc si trovava su una vecchia frana che poteva riattivarsi a causa della pressione dell’acqua trattenuta e delle fluttuazioni di livello, con il rischio che una grande massa di terra e rocce potesse cadere nell’acqua provocando gravi danni.
Fu realizzato un piccolo Vajont in scala 1:200 nel Centro Modelli Idraulici dell’Università e sembra che i risultati di questo esperimento fossero esattamente quelli che poi si verificarono la notte del 9 ottobre 1963.
Quegli studi non furono presi in considerazione. Ce n’erano altri che arrivavano a conclusioni molto più ottimistiche e interessanti per la SADE, la Società Adriatica di Elettricità, l’azienda incaricata dello sfruttamento idroelettrico, quindi la SADE scelse di dare credito ai rapporti che negavano il rischio, di tenere segreti quelli che lo confermavano e di continuare con i lavori.
La SADE
Quando la diga fu completata e furono avviate le prove di riempimento, la montagna stessa iniziò a dare chiare indicazioni che il rischio era reale: si aprirono enormi crepe, si sentivano rumori nel terreno, si sentivano scosse, gli alberi si piegavano. Addirittura una piccola parte della montagna cadde nell’acqua. Nulla di tutto questo fermò la SADE, che aveva davvero fretta di consegnare lo stato completato e funzionante prima che avvenisse la prevista nazionalizzazione delle aziende elettriche in Italia; se ciò non fosse avvenuto, avrebbero visto diminuire i profitti previsti con il progetto. Questa possibile riduzione dei profitti aveva accecato i loro dirigenti al punto da mettere al di sopra di tutto il resto. Si minimizzò la valutazione dei rischi, si mise in secondo piano il pericolo per le persone e si andò avanti.
Era tutto sotto controllo
All’inizio dell’autunno del 1963, con il serbatoio già pieno e ufficialmente in funzione, i segnali della tragedia non potevano essere più evidenti: il movimento del versante era visibile a occhio nudo. Gli abitanti di Erto e Casso chiedevano ripetutamente all’azienda e alle autorità di intervenire per garantire la loro sicurezza, ma non ricevevano risposta se non comunicati laconici, stereotipati e ufficiali che assicuravano che “tutto era sotto controllo”. Coloro che avevano lanciato l’allarme prima della tragedia erano stati etichettati come “allarmisti”; l’unica giornalista che aveva osato pubblicare ciò che stava accadendo, mettendo in guardia sul grave pericolo, Tina Merlin, fu oggetto di una denuncia da parte della SADE. Il resto della stampa taceva o applaudiva entusiasticamente l’azienda e il “capolavoro” che stava realizzando in quella piccola valle alpina.
Una strage annunciata
Ma la tragedia avvenne e si portò dietro quasi duemila vite. Alle undici meno venti della sera del 9 ottobre 1963, il Monte Toc si abbatté sul serbatoio, sollevando un’onda alta 90 metri che superò la diga, lasciandola intatta, e distrusse completamente Longarone, insieme ai villaggi di Rivalta, Pirago, Faé, Villanova e Codissago. Un secondo onda colpì le sponde del serbatoio stesso, causando gravi danni ai paesi di Erto e Casso e spazzando via le località di San Martino, Le Spesse, Pineda, Marzana, Ceva, Prada, Cristo, Marzana e Frasègn.
Carolina era solo una bambina quando il mondo sembrava crollare intorno a lei. La diga del Vajont, un’imponente struttura alta 263 metri, rappresentava il progresso e l’orgoglio tecnologico italiano. Ma fin dall’inizio, c’erano avvisi inequivocabili che qualcosa potesse andare terribilmente storto. Gli studi geologici avevano chiaramente indicato i pericoli, ma furono ignorati, nascosti o minimizzati dall’azienda incaricata dello sfruttamento idroelettrico.
Dopo la strage, ci si aspettava che i responsabili fossero puniti in modo adeguato ma i ricorsi e gli appelli successivi alla sentenza di promo grado ridussero le pene e alcuni imputati furono scagionati.
Alla fine del processo, solo tre colpevoli vennero condannati, e solo uno di loro trascorse poco più di un anno in carcere.
“Non esisteva più nulla. La morte era dappertutto”
“Non esisteva più nulla. La morte era dappertutto. Longarone non c’era più. Solo all’alba siamo riusciti a vedere i cadaveri che spuntavano dal fango”. Remo Lorenzetti oggi ha 86 anni e il 9 ottobre 1963 era in forza al reparto celere della questura di Padova. Fu tra i primi ad arrivare a Longarone. “Impossibile dimenticare – aggiunge Lorenzetti -. Non bisogna dimenticare. Non lo devono fare i nostri rappresentanti istituzionali. Lassù 1.917 persone sono morte per negligenza umana”
Un’ingiustizia che ancora oggi brucia nel cuore delle vittime sopravvissute.
La tragedia del Vajont si trasformò anche in un affare redditizio. Denaro piovve da tutte le parti per contribuire alla ricostruzione, ma il denaro non raggiunse mai veramente le vittime. Le compensazioni furono insufficienti, e molte persone scoprirono di non aver diritto ad alcun risarcimento.
Un miracolo economico
Una strana disposizione legale estese gli aiuti a tutta l’area del Triveneto, creando un “miracolo economico” in quella regione, ma a discapito delle vittime.
Le città furono ricostruite, ma i diritti delle vittime furono trascurati. Micaela Coletti, che ha perso i genitori e i fratelli quella notte quando era una bambina, non ha avuto il diritto a una nuova casa a Longarone perché l’ha richiesta anni dopo, quando era abbastanza grande da farlo, e il termine di prescrizione era già scaduto.
Riqualificare per cancellare
L’ultima ferita inflitta alle vittime è stata la “riqualificazione” del cimitero. “Non è stata una riqualificazione, ma una distruzione”, afferma Gino Mazorana, che era un bambino quando fu salvato dal fango, unico sopravvissuto della sua famiglia. “È come se ci avessero rubato l’unico cosa che ci era rimasta: la memoria dei nostri cari”. Ora trasformato in una sorta di asettico giardino zen, molti sopravvissuti hanno giurato che non metteranno più piede in quel luogo. Un luogo in cui, fino ad ora, passavano ore in solitudine, cercando di ritrovare la vita che una volta è stata la loro e che spesso è l’unica che riconoscono.
Copertina: Archivio Vigili del Fuoco
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